Alla ricerca dell'equità

Di Francesca Donato - progetto EurExit

Il principio-guida delle politiche fiscali seguite dal governo italiano dall’avvento dell’era Monti, in linea con quelli di altri PIIGS come Grecia e Portogallo, è quello per cui la spesa pubblica deve essere interamente finanziata attraverso imposte e tasse o tramite la vendita di asset pubblici (beni o imprese: in quest’ultimo caso si parla di “privatizzazioni”).

Risulta evidente e chiaro anche ad un bambino come tali criteri conducano inevitabilmente ad un progressivo e crescente impoverimento del Paese.

Ma ciò che fa di più indispettire, è come tali scellerate politiche vengano condotte richiamandosi spudoratamente a presunti criteri di equità e responsabilità, agganciandole oltretutto al dettato costituzionale.

In realtà, la Costituzione italiana, nonostante il vergognoso scempio subìto con l’introduzione fraudolenta dell’obbligo di pareggio del bilancio, ad opera del Governo Monti, stabilisce dei principi che vanno in direzione ben diversa da quelli seguiti dalle attuali “larghe intese”. Vediamo quali.

All’art. 53, il testo costituzionale recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Richiamandosi a tale norma, i nostri politici affermano che “chi è più ricco deve pagare di più”, legittimando in tal modo l’applicazione di aliquote fiscali che nel complesso raggiungono tetti superiori all’80% per le imprese ed al 50% per i liberi professionisti, nonché ad imposte patrimoniali del tutto svincolate dall’effettiva capacità reddituale.


In altre parole, si dice: se guadagni bene, devi allo Stato la maggior parte dei tuoi guadagni. Se effettui una qualsiasi operazione astrattamente produttiva di reddito, devi pagare una percentuale di quel reddito allo Stato. Se sei proprietario di beni, indipendentemente dal fatto che tu abbia o no un lavoro o da quanto in effetti guadagni, devi pagare imposte proporzionate al valore dei beni medesimi.

Andiamo per ordine.

Affermare che sia conforme ad “equità” pretendere da un imprenditore – che fa impresa assumendosi tutti i relativi oneri e rischi (in Italia già di per sè fuori misura), assume dipendenti accollandosi, per loro conto, l’onere dei pagarne tasse e contributi (attraverso ritenute alla fonte su entrambi) oltre al compenso per l’attività svolta – di versare allo Stato percentuali insostenibili di imposte e tasse sul reddito prodotto, calcolato tenendo conto anche degli importi in realtà non incassati (vedi fatture non pagate su cui va versata comunque l’IVA), è veramente un’aberrazione, tenuto conto anche del fatto che talvolta lo stesso imprenditore è contestualmente creditore dello Stato, moroso nei suoi confronti.

Si aggiunge poi a tale già iniqua imposizione l’ulteriore obbligo di versare allo Stato una o più imposte patrimoniali (come l’IMU) in ragione della proprietà di beni immobili o cosiddetti “di lusso” (imbarcazioni, auto, ecc.) con aliquote anche qui in perpetua ascesa, dopo che ha già pagato cospicue imposte relativamente agli stessi beni per l’acquisto, sia a titolo oneroso (compravendita) che gratuito (donazione o eredità) ed ulteriori imposte sugli eventuali redditi derivanti dalla locazione dei medesimi beni.

Ci sono ad esempio oggi imprenditori costretti a scoperchiare o abbattere i propri capannoni, costruiti tramite ingenti spese per servire la propria impresa, perché non sono più in grado di pagare l’IMU sugli stessi visto che i profitti sono crollati.

In questo modo,  la Repubblica viene meno ai sui doveri fondamentali in materia di sostegno e promozione dello sviluppo economico.

Non va dimenticato, infatti, che la nostra Costituzione obbliga lo Stato italiano anche a:

- rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2);

- promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro (art. 4);

- promuovere l’artigianato (art. 45, terzo comma);

- incoraggiare e tutelare il risparmio (art. 47, primo comma);

- tutelare la proprietà dell’abitazione (art. 47, comma 2).

Pare evidente che le politiche fiscali sopra descritte disattendano totalmente tali obblighi, stabiliti con norme di rango costituzionale, e perciò siano da considerare, nel loro complesso, illegittime oltre che inique.

Tale sistema risulta invero profondamente ingiusto al cittadino, a causa dell’eccessiva onerosità delle aliquote, dal moltiplicarsi dei balzelli e del fatto che le imposte patrimoniali non tengono conto del reale reddito percepito dal soggetto gravato, il quale può benissimo essere proprietario di beni ereditati o acquistati in periodi antecedenti, pur non percependo più un reddito sufficiente, per aver perduto il lavoro o aver visto calare di molto i propri guadagni (situazione oggi, purtroppo, molto frequente), o ancora per essere andato in pensione.

È naturale e comprensibile, dunque, che un cittadino posto di fronte all’obbligo di pagare tasse esose ed inique, costretto a licenziare i dipendenti, chiudere la partita IVA o vendere i propri beni per non poterne più sostenere i costi fiscali, percepisca lo Stato come ladro e concepisca l’evasione di almeno parte delle tasse dovute come una legittima difesa.

Riconoscere questo dato, al di là di ipocrisie moralistiche, non significa affatto giustificare l’evasione, ma comprenderne le cause reali e profonde.

E ancora più ipocrita ed aberrante è, di fronte a tali dati, continuare a rimproverare alle imprese italiane di “non assumere” o di “non fare investimenti”, quando proprio gli obblighi fiscali continuamente crescenti, in un contesto reso già proibitivo dal crollo dei consumi interni, precludono alle stesse ogni possibilità di crescita.

Il peso eccessivo della fiscalità in Italia ha dato vita ad una situazione in cui il lavoro nero, di fatto, costituisce l’unico vero ammortizzatore sociale (basti vedere quante piccole attività artigianali “sommerse” nascono ogni giorno, nelle case o per le strade, specialmente nel mezzogiorno: estetiste “in casa”, servizi di catering a domicilio, giardinieri, babysitter, lezioni private, venditori ambulanti abusivi e via dicendo).

Senza questa realtà del sommerso “di sopravvivenza” (come giustamente definita dallo stesso viceministro per l’economia Fassina), migliaia di famiglie non avrebbero di che vivere.

In questo contesto, accentuare ulteriormente la lotta all’evasione per recuperare quella parte di tasse insostenibile per gli Italiani già stremati e spremuti oltre ogni limite, significa affossare ancor più i consumi già ridotti al lumicino e diffondere maggiore povertà di quella che già c’è e che ha assunto dimensioni paragonabili soltanto a quella dei tempi del dopoguerra.

Non dimentichiamoci che l’Italia, nonostante l’evasione, rimane la nazione europea che versa più tasse di tutte. Accusare quindi gli Italiani di essere “ladri” o peggio “infami” perché “non pagano le tasse” è quindi falso ed ipocrita, oltre che gravemente irrispettoso della dignità dei nostri concittadini.

Ma il governo in carica continua imperterrito ad obbedire supinamente alle direttive della Troika, arrivando ad aumentare le aliquote che già hanno superato la soglia indicata dalla c.d. “curva di Laffer” come limite massimo all’imposizione possibile, oltre il quale si produce fisiologicamente un calo del gettito fiscale.

Questo effetto si è visto chiaramente con l’aumento dell’IVA dal 20% al 21%, a seguito del quale il gettito IVA è diminuito. E, nonostante ciò, Saccomanni e Letta non hanno rinunciato ad aumentare l’aliquota di un altro punto, già sapendo che in tal modo il gettito calerà ancora di più!

Che senso ha tale operare, ci si chiederà a questo punto. La risposta l’ha data Mario Monti in un’intervista rilasciata (in inglese) alla BBC nel 2012, spiegando che la strategia del suo governo era precisamente nel segno di “distruggere la domanda interna” per ridurre il dislivello fra importazioni (allora troppo alte) ed esportazioni (di molto inferiori, a causa della perdita di competitività rispetto ai prodotti tedeschi): non potendo alzare le esportazioni, si è raggiunta la parità diminuendo le importazioni attraverso la riduzione della capacità di acquisto delle famiglie. (Come se, per non far più zoppicare un uomo con una gamba monca, gli si tagliasse pure quella sana.)

Poco importava se, in tal modo, si uccideva anche la domanda interna, che sosteneva gran parte della nostra economia: l’importante per Monti era far quadrare i conti come “chiedeva l’Europa”, ovvero dimostrare di “aver fatto i compiti a casa”.

In parole povere: il Governo Letta, proseguendo il percorso segnato dall’ “agenda Monti”, gestisce l’economia nazionale come un compitino di aritmetica: tanto spendo, altrettanto devo tagliare; tanto devo ricavare di tasse, tanto aumento le aliquote.

Non tiene in alcun conto variabili economiche fondamentali come il moltiplicatore fiscale, la curva di Laffer o la curva di Phillips.

In questo modo, soddisfa le principali richieste della BCE-CE-FMI: tenere bassa l’inflazione, ridurre la spesa pubblica e trovare nelle tasche degli Italiani i fondi per ripianare le perdite delle banche europee, che le stesse hanno subìto a causa delle LORO dissennate condotte passate, in cui concedevano crediti senza sufficienti garanzie ed investivano in titoli tossici.

Non riesce tuttavia a centrare nemmeno l’obiettivo-cardine della riduzione del debito pubblico, che negli ultimi due anni è sensibilmente aumentato nonostante tutta l’austerity messa in campo, e stenta persino a restare sotto la soglia del 3% del deficit sul PIL, ben lontano dall’ (assurdo) obiettivo del pareggio del bilancio, imposto dal fiscal compact e tradotto in norma costituzionale.

Ma l’effetto più grave prodottosi a causa di tali scellerate politiche economiche, è il calo eccessivo dell’inflazione.

Siamo portati a credere, grazie alla disinformazione propagandistica diffusa dai sostenitori del neo-liberismo, che l’inflazione sia un terribile nemico: alcuni la chiamano “la tassa più odiosa, perché grava sul potere d’acquisto delle famiglie” (in una trasmissione di largo ascolto come “Report”, è stata addirittura definita come “una patrimoniale del 30%!”).

Tali slogan nascondono all’opinione pubblica la vera minaccia, che purtroppo già si è tradotta in realtà nel nostro Paese: un’inflazione troppo bassa, ovvero al di sotto della soglia “ideale” del 2% annuo, genera inesorabilmente disoccupazione.

Tale correlazione diretta è stata dimostrata dall’economista Phillips (da cui il nome della “curva”, che esprime graficamente il rapporto fra inflazione e disoccupazione), il quale ha chiarito che “solo pochi Paesi dall’economia molto forte possono permettersi una bassissima inflazione, e la conseguente disoccupazione.”

Ma quello che si sta verificando ora da noi è ancor più grave: l’inflazione ha raggiunto una soglia negativa, cioè inferiore allo zero. Ciò significa che i prezzi, anziché aumentare, diminuiscono. E, contrariamente a come potrebbe apparire, questo è un dato estremamente negativo, poiché crea una spirale recessiva nell’economia reale, dalla quale è difficilissimo uscire.

Per farmi capire, provo a spiegare il meccanismo: in una situazione di crisi come quella attuale, l’elevata pressione fiscale, con il conseguente calo del potere d’acquisto dei consumatori, e la lotta all’evasione condotta con strumenti terroristici ed inquisitori come il “redditometro” ed i controlli a tappeto, producono una contrazione dei consumi di ogni tipo di beni e della domanda di servizi, da quelli voluttuari a quelli di prima necessità.

I prezzi di tali beni e servizi quindi non aumentano, poiché altrimenti si venderebbe ancora meno. Ma il consumatore, per le ragioni di cui sopra, non acquista comunque quanto in precedenza. Si scatena dunque una gara al ribasso dei prezzi: i saldi nei negozi si moltiplicano, e così gli sconti, le svendite, le “promozioni” ed il consumatore si trova di fronte ad un’enorme quantità di beni invenduti, a prezzi che scendono sempre più: pertanto è invogliato – anche se ha soldi da spendere -  a rinviare gli acquisti, certo che poi troverà maggiore convenienza e medesima offerta.

Si entra così in deflazione, detta anche “trappola della liquidità”: una situazione in cui i consumi si bloccano e i margini di profitto per le imprese si assottigliano sempre più, sino a diventare inesistenti e costringerle a chiudere. Ciò genera ulteriore disoccupazione, conseguente calo dei consumi ed aumento della povertà, dando vita ad un circuito vizioso da cui è possibile uscire solo con interventi drastici e di segno opposto rispetto all’austerità, cioé con politiche c.d. “espansive”.

Queste sono le politiche che sta facendo il Giappone, che dopo essere stato in deflazione per dieci anni, ha intrapreso un “nuovo corso economico” con l’avvento del governo del premier Shinzu Abe, il quale ha deciso di emettere, attraverso la banca centrale giapponese,  enormi quantità di moneta, per finanziare imponenti investimenti pubblici (aumentando la spesa pubblica che è oggi il doppio della nostra, al 230%) ed immetterle nel circuito economico, con l’obiettivo di svalutare lo yen del 30% e far salire l’inflazione.

Ci è riuscito, ed il PIL giapponese sta crescendo a ritmi record. E, nonostante le critiche dei neoliberisti che gli davano del pazzo, i mercati premiano le sue scelte facendo sì che la borsa giapponese registri rialzi senza paragoni nelle piazze europee.

In conclusione, mi sembra ovvio, al di là di ogni strumentale accusa di “populismo” che certamente verrà sollevata, riconoscere che per invertire il pericoloso trend recessivo in cui siamo incanalati, una delle prime cose da fare sarebbe una riforma fiscale “shock”, con la quale ridurre significativamente le aliquote delle imposte e tasse vigenti ed altresì il numero delle stesse, per ridare respiro al potere d’acquisto dei consumatori e far ripartire la domanda interna nel Paese.

Ciò però è possibile soltanto a condizione di poter reperire altrove i fondi per finanziare la spesa necessaria per effettuare gli investimenti pubblici indispensabili per favorire l’occupazione e la crescita, ossia emettendo bond o moneta attraverso la banca centrale pubblica. Il gettito fiscale verrebbe in tal caso destinato a coprire la sola spesa corrente, così come la Costituzione realmente richiede.

Ma questo l’Italia potrà farlo soltanto recuperando la propria sovranità monetaria, cioè uscendo dall’euro.

Francesca Donato


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