Borsellino, l’Agenda Rossa e il depistaggio su via d’Amelio (1° e 2° parte)

PRIMA PARTE

Di Claudio Forleo

Siamo arrivati al 19 luglio 1992. Alle 16,58 l'esplosione di una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 di via Mariano D'Amelio (dove abita la madre del magistrato), uccide Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano e Walter Eddie Cosina.

A distanza di 16 anni le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza (ritenuto credibile da quattro Procure) hanno riscritto la storia di quanto accaduto in quei giorni, facendo emergere quello che può essere definito un vero e proprio depistaggio di Stato.
Dal luogo della strage scompare l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Un'agenda di pelle, regalatagli dall'Arma dei Carabinieri, in cui Borsellino scriveva spunti investigativi, annotazioni. Quasi un 'diario segreto' dal quale non si staccava mai e che non faceva leggere neanche ai più stretti collaboratori, particolarmente utilizzato nei 57 giorni che seguono la strage di Capaci. Agnese Borsellino racconterà ai magistrati che anche quella domenica pomeriggio vide il marito deporre l'agenda nella borsa, ritrovata poi all'interno dell'auto. Che fine ha fatto?
C'è una foto (spunterà fuori anche un filmato della Rai) , scattata pochi minuti dopo la strage, che ritrae il capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli (diventato poi colonnello) con in mano la borsa di Paolo Borsellino. Arcangioli sostiene di averla consegnata a tre magistrati presenti sul posto: Vittorio Teresi, Alberto Di Pisa e Giuseppe Ayala.  I primi due smentiscono categoricamente, il terzo riesce a cambiare versione tre volte nel corso degli anni

LE TRE VERSIONI DI AYALA
Ayala, pm al maxiprocesso, in quel momento è un parlamentare del Pri. E' sul luogo della strage pochi minuti dopo l'esplosione della 126.

Prima versione, 1998: "Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto (di Borsellino, ndr). Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l'ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo".
Seconda versione, 2005: "Scorsi sul sedile posteriore una borsa di pelle bruciacchiata. Istintivamente la presi, ma mi resi subito conto che non avevo alcun titolo per fare ciò, per cui ricordo di averla affidata immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri che era a pochi passi".
Terza versione, 2006: ""Ebbi modo di vedere una persona in abiti borghesi...prelevava dall'autovettura attraverso lo sportello posteriore sinistro una borsa. Io mi trovavo a pochissima distanza dallo sportello e la persona in divisa si volse verso di me e mi consegnò la borsa...accanto alla macchina vi era anche un ufficiale in divisa quasi istintivamente la consegnai al predetto ufficiale".
Ayala nel 1998 rifiuta di prendere in mano la borsa, nel 2005 la prende e la passa di mano, nel 2006 la riceve e la passa ad un ufficiale in divisa.
La quarta versione diversa è di Arcangioli (che Ayala sostiene di non aver mai conosciuto): ha visionato la borsa con i tre magistrati citati, ma dentro non c'era alcuna agenda. Poi l'ha riposta dentro l'auto, dove è stata presa in consegna dalle forze dell'ordine e verbalizzata tra gli oggetti personali del magistrato.
L'unico fatto certo è che l'Agenda Rossa scompare. Il 26 aprile 2013, il pentito Gaspare Mutolo rilascia un'intervista al sito Antimafia Duemila: " Giuseppe Ayala aveva il vizio del gioco. Chiedeva soldi, comprava la droga. Al maxi-processo per me hanno chiesto 25 anni e per il mio capo mandamento, Giacomo Giuseppe Gambino, solo 10 anni. Questo lo vedo come un 'favore' che Ayala ha fatto a Gambino". Ayala ha annunciato querela per calunnia.

IL DEPISTAGGIO
Via d'Amelio fa rima con depistaggio. Poche settimane fa è iniziato a Caltanissetta il quarto processo sulla strage, quello che dovrà riscrivere la storia di quel luglio 1992 e l'interpretazione dei fatti verificatisi dopo.
Al centro della nuova inchiesta c'è Gaspare Spatuzza, killer agli ordini dei boss di Brancaccio, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Arrestato nel 1997, inizia a collaborare con la giustizia nel 2008. E le sue dichiarazioni sono dirompenti. Accusa Marcello Dell'Utri, storico braccio destro di Silvio Berlusconi, di essersi proposto come nuovo referente per Cosa Nostra in sostituzione dei partiti della Prima Repubblica, che hanno tradito sul maxiprocesso e che vengono spazzati via da Tangentopoli.
Distrugge la credibilità dei falsi pentiti e accusa se stesso per via d'Amelio, facendo riaprire le indagini sulla strage e mettendo in dubbio la buona fede di chi aveva condotto le inchieste dopo il 19 luglio. Lo scorso marzo è stato condannato a 15 anni, processato con la formula del rito abbreviato.

LE INDAGINI DEL 1992-1994, IL FALSO PENTITO SCARANTINO
Torniamo al 1992. Nei giorni successivi alla strage la tesi è che l'esplosivo sulla Fiat 126 sia stato azionato a distanza con un telecomando. L'esperto informatico Gioacchino Genchi riceve dalla Procura di Caltanissetta (deputata a indagare su via d'Amelio) il compito di iniziare una serie di accertamenti sui telefoni intorno al luogo della strage. A seguito di questa indagine Genchi scopre che al Castello Utveggio, posto sul Monte Pellegrino (che 'vede' via d'Amelio), il Sisde  aveva un centro operativo.
Il Sisde è il servizio segreto interno che contava tra i suoi massimi esponenti Bruno Contrada, che Mutolo aveva indicato a Borsellino come 'colluso' con Cosa Nostra e che sarà arrestato nel dicembre 1992.
La presenza nel Castello Utveggio di una postazione Sisde è stata considerata fino al pentimento e alle rivelazioni di Spatuzza un indizio del coinvolgimento di 'pezzi dello Stato' nella strage.
Nel settembre 1992 viene arrestato per rapina e violenza Salvatore Candura, un pregiudicato di piccolo cabotaggio: interrogato dagli inquirenti ammette il furto di una Fiat 126. Nei giorni che seguono Candura sostiene che a commissionargli il furto è stato un tale Vincenzo Scarantino, con precedenti per spaccio.
Due settimane dopo Scarantino viene tratto in arresto. L'accusa è di essere stato lui il 'ricettatore' dell'auto utilizzata per la strage. Secondo gli investigatori Cosa Nostra si sarebbe affidata a delinquenti comuni per uno dei passaggi più significativi dell'attentato a Paolo Borsellino.
Il Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra annuncia di aver "arrestato uno degli esecutori materiali della strage". Sono passati poco più di due mesi dal 19 luglio 1992.
Inaspettatamente nel dicembre 1992 il capo della Squadra Mobile di Palermo, il vicequestore Arnaldo La Barbera (nel capoluogo siciliano dal 1988, già collaboratore di Falcone e coinvolto nelle indagini su via d'Amelio) viene trasferito a Roma. Anche Genchi viene rimosso dall'incarico.
Chi è La Barbera? Prima di Palermo aveva diretto la Squadra Mobile di Venezia (1976-1988). Nel 1994 viene messo a capo della Questura del capoluogo siciliano. Nel 1997 a Napoli,  due anni dopo a Roma, poi a capo dell'Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), indicato come uno dei responsabili del blitz alla scuola Diaz durante il G8 di Genova ("ero d'accordo sul blitz, ma giunto sul posto lo sconsigliai per lo stato di tensione che ho percepito" dichiarerà nei giorni successivi), muore nel 2002.
"Stavamo per scoprire la verità sulle stragi e forse anche sui mandanti esterni. Ci dissero che tutto doveva passare nelle mani del Ros, che stava trattando con collaboratori importantissimi per arrivare all'arresto di Riina. E' la prova che la trattativa era nota a tutti" le parole di Genchi alla Procura di Caltanissetta, riportate da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza sul Fatto Quotidiano del 26 settembre 2009.
Il 15 gennaio 1993 Totò Riina viene arrestato. Poco dopo il Ministero dell'Interno cambia idea e La Barbera torna al suo posto: guiderà un pool di investigatori denominato Gruppo Falcone-Borsellino, creato con decreto della Presidenza del Consiglio. Viene richiamato anche Genchi. A coordinarli la Procura di Caltanissetta guidata da Tinebra (tra i pm c'è anche Ilda Boccassini, da poco trasferita da Milano).
A maggio Genchi ha uno scontro con La Barbera. Lo ricorda lo stesso perito informatico nel libro Il caso Genchi: "Decisero di arrestare Pietro Scotto, l'uomo che avevo individuato come possibile telefonista per via d'Amelio. Mi parve una cosa assurda...Era intercettato, avrebbe forse potuto portarci ben più avanti....L'arresto di Scotto per le confessioni di due personaggi improbabili come Caldura e Scarantino rischiava di far naufragare l'indagine....La Barbera scoppiò a piangere. Mi disse che lui sarebbe diventato questore e che per me era prevista una promozione per meriti straordinari. Non volevo e non potevo credere a quello che mi stava dicendo....Me ne andai sbattendo la porta. Abbandonai per sempre il gruppo Falcone-Borsellino e le indagini sulle stragi".
Il 27 maggio 1993, il giorno dell'attentato in via dei Georgofili a Firenze (5 morti), Pietro Scotto viene tratto in arresto. Intanto finisce in manette anche Giuseppe Orofino, considerato il custode della Fiat 126 rubata e utilizzata per la strage.
Nuovo arresto nel settembre 1993: Salvatore Profeta, considerato l'intermediario tra Scarantino (è suo cognato) e i boss della Cupola. Poco prima di Natale spunta un nuovo pentito: Francesco Andriotta. Vicino di cella di Scarantino, lo avrebbe ascoltato mentre parlava del furto della 126 e del suo legame con Profeta e Orofino.
Nel 1994, anno di nascita della Seconda Repubblica, la Procura di Caltanissetta ha già in mano la presunta verità su via d'Amelio. A luglio, mentre i familiari inscenano proteste e sostengono che Vincenzo Scarantino venga pestato subendo pressioni per pentirsi (è detenuto nel carcere di Pianosa), l'uomo chiave delle indagini 'salta il fosso'.
Il nuovo 'pentito' Scarantino parla, confessa omicidi precedenti al 19 luglio 1992 e indica altri corresponsabili della strage di via d'Amelio. Caltanissetta crede a Scarantino, Palermo no. Il pm Alfonso Sabella lo interroga su alcuni fatti di sangue verificatisi nel capoluogo siciliano, ma le sue dichiarazioni vengono giudicate inattendibili. Perplessità che condivide con Ilda Boccassini, applicata a Caltanissetta.
Scarantino ritratta spesso, e le sue deposizioni non collimano con quelle di altri pentiti come Salvatore Cancemi, che lo bolla come "estraneo a Cosa Nostra". Ci sarebbe di che riflettere, ma il processo per la strage del 19 luglio inizia davanti alla Corte d'Assise si Caltanissetta: è l'ottobre del 1994.
Nel luglio del 1995 la parlamentare Tiziana Maiolo (Forza Italia) rende pubblica una lettera della moglie di Scarantino (Rosalia Basile) inviata a Silvia Tortora, figlia di Enzo. Nel testo le accuse contro un funzionario di Polizia che avrebbe ripetutamente minacciato Scarantino. Pochi giorni dopo Silvia Tortora rivela che il funzionario in questione sarebbe Arnaldo La Barbera.  Nel successivo mese di ottobre la signora Scarantino, che nel frattempo è uscita dal programma di protezione destinato ai familiari dei collaboratori di giustizia (cambierà idea un anno più tardi), consegna un esposto alla Procura di Palermo sulle presunte sevizie subite dal marito. Nel gennaio 1996 la Basile verrà intervistata anche dal Fatto di Enzo Biagi.
Il 27 gennaio arriva la prima sentenza: Orofino, Profeta e Scotto vengono condannati all'ergastolo per la strage di via d'Amelio, 18 anni per Scarantino. Nel mese di ottobre inizia il secondo processo, quello che vede alla sbarra 18 imputati tra mandati ed esecutori materiali. Durante tutto il 1997 Scarantino chiede alla Procura di Caltanissetta e alla Dna (Direzione Nazionale Antimafia), di interrompere la collaborazione: vuole essere condotto in carcere...

Fonte: http://it.ibtimes.com/articles/48319/20130510/agenda-rossa-borsellino-arcangioli-ayala-depistaggio-via-damelio-scarantino-spatuzza.htm

SECONDA PARTE

 Di Claudio Forleo


Nel 1997 la Seconda Repubblica ha già prodotto tre governi, le prime leggi ad personas, mentre l'Italia sta per sbarcare in Eurolandia. Il ricordo di Capaci e via d'Amelio si fa via via più sbiadito, anche perché le indagini sono state un successo. O almeno è quello che raccontano. E Il governo di centrosinistra si appresta a chiudere le supercarceri di Pianosa e all'Asinara, una delle richieste contenute nel 'papello' di Totò Riina (approfondimenti in uno dei prossimi articoli).
Il pool investigativo Falcone-Borsellino ha già scritto una storia che va bene a molti e che reggerà in Tribunale, fino alla Cassazione. L'uomo-chiave delle indagini, secondo gli investigatori coordinati dalla Procura di Caltanissetta, è Vincenzo Scarantino. Ha confessato, è stato inchiodato anche da altri presunti collaboratori di giustizia come Francesco Andriotta. Ma le fila di chi considera falsa la collaborazione del pentito si ingrossano col passare del tempo: a Palermo non gli credono, il perito informatico Gioacchino Genchi e la pm Ilda Boccassini, prima di lasciare il capoluogo nisseno, esprimono tutte le loro perplessità. Alcune 'confessioni' del pentito non coincidono con le parole di altri collaboratori di giustizia, da cui viene definito "estraneo a Cosa Nostra".  Lo stesso Scarantino trascorre il 1997 chiedendo di essere arrestato, di interrompere la collaborazione e di uscire dal programma di protezione.

SCARANTINO RITRATTA
Si arriva al maggio 1998, quando sui tre processi che si stanno celebrando per via d'Amelio si abbattono le dichiarazioni di Giovanni Brusca, arrestato nel 1996. Ha deciso di collaborare con la giustizia e lui non è uno qualunque, ma uno dei killer dei Corleonesi, l'uomo che azionò il dispositivo allo svincolo di Capaci, il 23 maggio 1992. "Non conosco Scarantino" dice Brusca. "Non ci fu nessuna riunione dei vertici di Cosa Nostra prima della strage di via d'Amelio", un'altra smentita delle parole di Scarantino.
Settembre, Scarantino ritratta. Durante una deposizione a Como, il 'pentito' dice di avere inventato tutto, che l'unica "cosa vera" è che lui "lavorava con la droga".  Racconta le minacce che avrebbe subito dagli investigatori, parla di condizionamenti da parte dei magistrati. "Non ho avuto nessun ruolo nella strage di via d'Amelio" è la conclusione.
Scarantino conferma la marcia indietro anche nel confronto con Giovanni Brusca, e negli interrogatori continua a ripetere per settimane di aver inventato tutto, ribadendo le accuse a investigatori e magistrati.
Ma i processi Borsellino, Borsellino-bis e Borsellino-ter vanno avanti. Le sentenze che seguono scagionano completamente Pietro Scotto, indicato dagli inquirenti come il 'telefonista di via d'Amelio', mentre Giuseppe Orofino (il presunto custode della Fiat 126 utilizzata per la strage) viene condannato per favoreggiamento, non per strage.
Nel dicembre 2000 arriva la prima sentenza definitiva su via d'Amelio. Scarantino viene giudicato solo "parzialmente attendibile". Secondo la Suprema Corte la ritrattazione del pentito, descritto come un personaggio di scarso calibro, è forzata da "elementi esterni", intesi come pressioni arrivate da Cosa Nostra.
Dando per scontato che Scarantino avesse dichiarato il vero fino alla sua ritrattazione, rimangono svariate domande senza risposta. Perché Cosa Nostra si sarebbe affidata ad un personaggio del genere, di basso profilo, per uno dei passaggi fondamentali della strage: procurare l'auto da imbottire con l'esplosivo?
E ancora: le sentenze di condanna colpiscono le cosche di Brancaccio e della Guadagna, in apparente antitesi. La prima, guidata dai Graviano (vicini a Riina), ha avuto un ruolo di primissimo piano durante il periodo stragista 1992-1993. I 'picciotti' della Guadagna (cui farebbe parte Scarantino) sono legati al clan Aglieri e a Bernardo Provenzano. E Binnu non era un sostenitore della strategia di sangue voluta da Riina.  A meno che il boss non si sia convinto che eliminare Paolo Borsellino, venuto a conoscenza dei contatti fra il Ros e Ciancimino, fosse inevitabile allo scopo di eliminare il principale ostacolo alla trattativa. Ma la sentenza non fa nessun cenno in merito.

GASPARE SPATUZZA
Nel 2008 i processi sono arrivati a conclusione, la verità giudiziaria su via d'Amelio sarebbe stata appurata. Poi 'compare' sulla scena Gaspare Spatuzza e i dubbi sulle indagini condotte dopo il 19 luglio 1992 diventano qualcosa di più.
Arrestato nel 1997, Spatuzza ha iniziato un percorso di conversione religiosa. Nei primi mesi del 2008 quello che fu l'esecutore dell'omicidio di don Puglisi (1993), killer di fiducia dei boss di Brancaccio Giuseppe e Filippo Graviano, molto legato a Leoluca Bagarella (cognato e braccio destro di Riina), vuole collaborare con la giustizia.
Spatuzza cancella la verità su via d'Amelio certificata dalla Cassazione. Smentisce Scarantino, sostiene di essere stato lui a rubare la Fiat 126 utilizzata per l'attentato (su richiesta dei Graviano) e di aver procurato l'esplosivo.
Bisogna valutare l'attendibilità di Spatuzza. Aprile 2009: arriva l'ok da parte della Procura di Firenze (che indaga sulle stragi del 1993). A luglio anche Palermo e Caltanissetta, svolti i relativi accertamenti, lo considerano affidabile. Se Spatuzza è attendibile, Scarantino è ufficialmente un falso pentito. Assieme a Francesco Andriotta e Salvatore Candura ammette il depistaggio.

LE CONFESSIONI, 17 ANNI DOPO
Scarantino confessa davanti ai pm di Caltanissetta in un interrogatorio del settembre 2009. "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame". 
Salvatore Candura (che accusò Scarantino di avergli commissionato il furto della 126) lo aveva fatto sei mesi prima, a marzo: "Non sono un mafioso, La Barbera mi minacciava. Mi diceva tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita".
In mezzo la ritrattazione di Francesco Andriotta, il vicino di cella che aveva riportato la presunta confessione di Scarantino: "C'erano delle volte che io volevo ritrattare. Ho preso anche delle botte dentro, in carcere... Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo (Mario Bo, attualmente dirigente della Squadra Mobile di Trieste, ndr). Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo".
Lo scorso marzo è iniziato a Caltanissetta il processo-qater sulla strage di via d'Amelio. Alla sbarra i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, accusati di essere tra i responsabili della preparazione dell'attentato. I falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci dovranno rispondere del reato di calunnia. In base alle loro dichiarazioni fasulle 7 persone sono state condannate nei tre precedenti processi sulla strage.
Il 13 marzo 2013 Gaspare Spatuzza è stato condannato a 15 anni con la formula del rito abbreviato. 10 anni al collaboratore di giustizia Fabio Tranchina, che ha indicato in Giuseppe Graviano l'uomo che azionò il dispositivo sulla Fiat 126. 12 anni all'altro falso pentito Salvatore Candura, accusato di calunnia.

LE ALTRE VERITA' DI SPATUZZA
Ma Gaspare Spatuzza non si è limitato a parlare di via d'Amelio. Da osservatore privilegiato di quello che accadde tra il 1992 e il 1994, il collaboratore di giustizia ha aggiunto carne al fuoco dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
Il 4 dicembre 2009, nell'aula bunker di Torino, nell'ambito del processo d'appello a carico di Marcello Dell'Utri (poi condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr), Spatuzza dichiara: "Nel 1994 incontrai Giuseppe Graviano in un bar in Via Veneto, aveva un atteggiamento gioioso, ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo, grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti quella storia. Non come quei quattro "crasti" socialisti che avevano preso i voti nel 1988 e 1989 e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vennero fatti due nomi tra cui quello di Berlusconi. Io chiesi se era quello di Canale 5 e mi disse: sì. C'era pure un altro nostro paesano. Graviano disse che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani" (approfondiremo le dichiarazioni di Spatuzza e il ruolo di Marcello Dell'Utri, imputato nel processo sulla trattativa, in uno dei prossimi articoli).


Fonte: http://it.ibtimes.com/articles/48459/20130513/borsellino-depistaggio-via-damelio-trattativa-stato-mafia-spatuzza-scarantino.htm

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