Dietro l'etichetta: la doppia verità del cotone indiano


Acquistare capi in cotone biologico potrebbe rappresentare non solo un gesto di attenzione verso il Pianeta e le sue risorse, ma anche di vera rottura con i criteri consumisti e economici attuali. Roba da consumatori critici insomma, che vuol dire tutto e non vuole dire niente però. E dunque molto ma molto più delle parole (mie in questo caso) possono le immagini di un docufilm dal titolo emblematico: Behind the label.
Il progetto è stato fortemente voluto e finanziato da italiani così come la regia di Sebastiano Tecchio. Dunque si racconta della produzione di cotone in India e di come 216.000 contadini in meno di un decennio si siano tolti la vita a causa dei debiti. Ma perché in India si è arrivati quasi al collasso di un sistema agricolo che ha retto per centinaia di anni? Leggo dalla sinossi di Behind the label:
L’ ex-direttore commerciale di Monsanto India - Tiruvadi Jagadisan - racconta come l’azienda, per affermarsi sul mercato indiano, abbia negli anni ’90 introdotto illegalmente semi con un gene in grado di rendere sterili le varietà locali, e poi - dal 2002 con semi geneticamente modificati - ha acquistato, passo dopo passo, un monopolio di fatto quasi totale del mercato. Oggi i semi di cotone Ogm sono distribuiti a carissimo prezzo da aziende indiane, che versano le royalties alla Monsanto: ciò che all’inizio costava 9 rupie al chilo, oggi viene comprato a 4000 rupie da contadini poveri o poverissimi.
A smentire il lavoro riportato nel docufilm un articolo di un anno fa di Dario Bressanini che spiega perché il cotone OGM si sia, al contrario, rivelato la vera soluzione per i coltivatori di cotone indiani, portando salute e ricchezza.
A me oltre ogni possibile pregiudizio sorge una riflessione: com’è che Monsanto e in genere le multinazionali Biotech sono sempre più ricche e i contadini che usano i loro semi non sembrano essere né ricchi e né in salute?

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