Giappone, sedicimila persone tornano nelle città proibite del post-Fukushima
Il governo di Tokyo ha dato il via libera per il ritorno dei cittadini giapponesi a Kawauchi, Tamura e Minamisoma. Abbastanza lontane dalla costa da non essere state completamente distrutte dallo tsunami, queste località devono comunque fare i conti con l'abbandono e il degrado del territorio, nonché con la contaminazione dei terreni
Sembra impossibile, eppure per alcuni giapponesi della prefettura di Fukushima è già arrivato il momento di tornare nelle proprie abitazioni. Almeno per chi vuole farlo. Il via libera è giunto da Tokyo, dove il governo punta nei prossimi anni ad un graduale ripopolamento delle zone disastrate, a seconda delle tre categorie basate sui diversi livelli di radiazioni.
Oltre a Kawauchi, Tamura e Minamisoma, in lista di attesa ci sono altre otto città, sempre all’interno della zona di evacuazione. Ma lì sembra ancora prematuro parlare di rientro degli sfollati. Anche nelle tre città già riaperte, in realtà, alcune aree rimarranno comunque chiuse al pubblico, fino alla loro completa decontaminazione. Un dettaglio che ha portato molte persone delle tre città riaperte a non fidarsi ancora, rinviando il loro rientro a quando l’area sarà del tutto bonificata e le infrastrutture rese nuovamente funzionali.
Una scelta saggia quella di attendere, secondo il fotoreporter Pierpaolo Mittica, uno dei pochi italiani ad essere entrato nelle zone off limits della prefettura di Fukushima. “Sono stato diverse volte a Kawauchi, paese di circa 3.200 abitanti sul confine della zona di esclusione, a circa 18 km dalla costa – spiega Mittica al Fattoquotidiano.it – Ci sono andato con il proprietario di una fattoria locale, dove abbiamo misurato livelli di radioattività che arrivano a quasi 20 microsievert l’ora(μSv/h), mentre il livello normale sarebbe di 0,08 μSv/h”.
Una radioattività che cambia molto, a seconda del punto in cui ci si trova. “La diffusione della radiazione è a macchia di leopardo, sia dentro che fuori dalla zona di esclusione, per cui ci sono aree altamente contaminate e subito dopo aree pulite”, puntualizza il fotografo: “Dal mio punto di vista ripopolare la zona è una follia, perché significa esporre le persone che ci vivranno al rischio di patologie future - sottolinea – L’unico motivo di questa scelta è che la chiusura definitiva di una zona così vasta rappresenta un danno economico enorme”.
L’allevatore giapponese che ha accompagnato il fotoreporter italiano nelle sue rilevazioni e visite alle zone evacuate, da qualche tempo ha avviato una collaborazione con alcune ditte che sperimentano nuovi polimeri per decontaminare i molti terreni altamente contaminati di Kawauchi. “Questi polimeri sono resine che vengono spruzzate sulla terra, si infiltrano e, almeno in teoria, induriscono e assorbono le particelle radioattive”, rivela Mittica. Il compito dell’allevatore, in seguito, “è quello di levare i primi 50 cm di terra e di metterli in sacchi”, permettendo così alle società coinvolte nel progetto di analizzarla e valutare il grado di assorbimento delle radiazioni.
Del resto, il Paese del Sol Levante è intenzionato a rilanciare al più presto l’esportazione delle sue merci. In particolare nell’Unione europea, dove in seguito alla recente modifica del regolamento di esecuzione 297/2011 (che dopo l’incidente nucleare ha imposto condizioni speciali per l’importazione di prodotti alimentari dal Giappone con eccessivi livelli di radionuclidi) verrà permessa nuovamente l’importazione di prodotti nipponici come il sakè.
Come riportato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 30 marzo, infatti, “le autorità giapponesi hanno fornito alla Commissione informazioni secondo le quali sono stati prelevati numerosi campioni di sakè ed altre bevande spiritose (whisky e shochu) e in nessuno di tali campioni è stata rilevata radioattività”. Se non altro perché “il processo di brillatura, fermentazione e distillazione rimuove la radioattività quasi completamente dalla bevanda”.
Un discorso che, però, non vale ancora per riso, carne bovina o soia, prodotti dei quali “non è consentita l’immissione sul mercato giapponese”, e che quindi “non possono neppure essere esportati”.
fonte: "Il Fatto Quotidiano"
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