Vulcani: quali rischi per l'umanità?

Macrolibrarsi.it presenta il libro: Vulcani, quali rischi? di Sabrina Mugnos


Introduzione del libro " Vulcani quali rischi" di Sabrina Mugnos 


Nell’aprile del 2010 il traffico aereo di mezza Europa è andato in tilt a causa di una nube di cenere arrivata dalla fredda Islanda, emessa dal vulcano Eyjafjoll. La cenere, infatti, soprattutto quella talmente fine da essere invisibile ai normali radar, può danneggiare i motori delle aeromobili portando al loro blocco.
Nonostante si sia trattato di un’eruzione di modesta entità, praticamente ordinaria per la natura geologica dell’isola, tanto è bastato per rendere rischiosi i voli dei maggiori scali internazionali portando alla loro paralisi. E così, le imprese di un piccolo braciere perfettamente sconosciuto, annidato silenzioso da secoli sotto una spessa calotta glaciale, sono finite sulla bocca di tutti, alimentate dal più accanito gossip catastrofistico. Guai a toccare il portafogli dell’economia internazionale, e tanto più ad intralciare i frenetici spostamenti degli occidentali! Eh già, perché solo un mese dopo, alla fine di maggio, i latino-americani Pacaya (Guatemala) e Tungurahua (Ecuador) hanno fatto vittime e costretto all’evacuazione migliaia di persone, così come l’indonesiano Sinabung alla fine di agosto, quando si è risvegliato dopo 400 anni di sonno ammantando di cenere Sumatra e lasciando senza tetto circa 30.000 persone. Eppure, sono stati totalmente snobbati dai media.
Ma le catastrofi naturali sono tutt’altra cosa che noi, Sapiens Sapiens moderni, ancora non conosciamo perché si sono consumate sul nostro pianeta prima del nostro arrivo. Allora, quando montagne di roccia ancora cadevano di frequente dal cielo, e i continenti avevano altre forme e posizioni, veri e propri oceani di fuoco inondarono e avvelenarono la superficie terrestre, proprietà di inquilini a quattro zampe o dotati di pinne e squame.

Solo i nostri primissimi antenati assaggiarono la verga della natura violenta, e questo avvenne circa 74.000 anni fa, quando il vulcano indonesiano Toba mise a ferro e fuoco l’intero pianeta. Poi, da quella lontana e  drammatica notte dei tempi, l’attuale umanità che ne uscì visse sonni più tranquilli, sebbene spesso funestati da fenomeni naturali violenti. Solo negli ultimi tre secoli potenti eruzioni vulcaniche hanno alterato il clima globale e scatenato carestie con centinaia di migliaia di vittime. Eppure questi rimangono eventi ancora modesti rispetto al reale potenziale distruttivo del nostro pianeta che per ora ci ha risparmiato ricordandoci, però  costantemente, che questo stato di grazia non durerà in eterno. Il suo cuore è ancora rovente e lui continuerà a fare il suo mestiere, senza curarsi di chi scorrazza sul suo dorso. Nel frattempo, ci stiamo moltiplicando a vista d’occhio andando ad occupare spazi che non andrebbero invasi: oltre mezzo miliardo di persone si sono accampate alle falde di vulcani attivi, ammaliate soprattutto dalla fertilità delle loro terre. E nonostante sia noto il pericolo che incombe, la cosa non preoccupa al punto da far fagotto e andare altrove. Un esempio per tutti è lo splendido territorio napoletano.
Il Vesuvio e i dirimpettai Campi Flegrei, due tra i più pericolosi sistemi vulcanici del mondo, sono letteralmente attorniati da centinaia di migliaia di persone che, evidentemente, si sentono rassicurate dal fatto che i colossi dormono da decenni, oltre che dai loro santi protettori. Ma la loro  natura è proprio quella di sonnecchiare, talvolta anche per millenni, prima di scatenare dei cataclismi. Essi fanno parte di quella categoria di vulcani che gli studiosi definiscono grigi perché di un grigio desolante e spettrale tingono il paesaggio quando si risvegliano, con diluvi di pietre e cenere roventi seguiti da valanghe incandescenti di gas, brandelli di magma e cenere veloci più del vento e devastanti quanto una detonazione nucleare. Purtroppo allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è possibile stabilire quando e in che modo si risveglieranno, sebbene tutta una serie di segnali premonitori dovrebbero annunciarlo almeno alcune settimane prima.
Si possono però fare delle previsioni: sulla base di una gran mole di informazioni geologiche e storiche sulle vicissitudini passate dei vulcani, e il loro stato presente determinato dai dati strumentali una nuova generazione di vulcanologi (gli studiosi di Modellistica dei Processi Vulcanici) che ha sostituito al martello potenti elaboratori, simula tramite eruzioni virtuali ciò che potrebbe accadere, valutando l’impatto sulla popolazione e l’ambiente circostante. Il Vesuvio è il principale soggetto di tali studi, coordinati a livello internazionale proprio da esperti italiani dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Lo si ritiene una sorta dibomba ad orologeria, il cui timer ha cominciato il conto alla rovescia dal tempo della sua ultima eruzione avvenuta nel 1944. Nell’attesa i napoletani vivono e convivono con le espressioni di sofferenza e terrore scolpite sui corpi  fossilizzati delle vittime di Pompei ed Ercolano (due dei paesi spazzati via dalla grande eruzione del 79 d.C.), noncuranti di ciò che cova sotto le loro amate terre. Del resto le stesse autorità sembrano poco preoccupate, non avendo ancora fornito ai comuni delle zone a maggior rischio una versione definitiva del Piano Nazionale di Emergenza, una strategia di evacuazione approntata una quindicina di anni fa proprio per fronteggiare un’eruzione imminente.
Il subbuglio mediatico scatenato dal piccolo Eyjafjoll, bontà sua, ha attirato l’attenzione anche sugli altrettanto inquietanti vulcani sommersi, di cui il nostro Mediterraneo è letteralmente gremito. L’area tirrenica in particolar modo, ospita dei colossi che rivaleggiano in dimensioni nientemeno che col gladiatorio Etna. Attualmente sono sopiti, ma potrebbero ridestarsi da un momento all’altro e produrre esplosioni ed eruzioni sottomarine; oppure potrebbe semplicemente distaccarsi qualche frana dalle loro pareti precarie fatte di roccia lavica, profondamente alterata dal perenne contatto con l’acqua marina. In tutti i casi, qualsiasi cosa accada sopra o sotto il mare, è una potenziale causa di tsunami, le muraglie d’acqua assassine che nel nostro piccolo mare ricamato da coste popolate da milioni di persone provocherebbero una strage.
Taluni vulcani insomma sanno fare davvero paura, sebbene non siano popolari come sismi, uragani e alluvioni, molto più frequenti e di norma enormemente meno potenti. Ma non tutti i bracieri della terra sono dei serial killer: ci sono vulcani e vulcani e, quando non sono così iracondi, le loro evoluzioni sanno deliziare con spettacoli di selvaggia bellezza, permettendoci di dare una sbirciata a quello che era la Terra prima che gli esseri umani la  eleggessero a loro dimora. Quando il magma arriva in superficie molto fluido e degassato sotto forma di lava può esibire fenomeni stravaganti, come incanalarsi in fiumi con rapide, mulinelli e cascate, oppure zampillare in aria dando vita a fontane e fantasie pirotecniche di ogni genere, così come è possibile ammirare alle isole Hawaii. E i paesaggi che si lascia alle spalle hanno forme e colori assolutamente peculiari, impossibili da emulare anche dal tocco del più abile degli artisti. Certo, viverci accanto non è cosa semplice; in fondo si tratta pur sempre di vulcani, e i danni all’ambiente e alle infrastrutture che producono sono spesso pesanti. Ma  difficilmente uccidono, se non qualche curioso che si è avvicinato troppo. Loro, i buoni per intenderci, sono i rossi, perché è il rosso della roccia infuocata a far da cornice alle loro esibizioni.
Rosso e grigio, grigio e rosso, i colori della passione e della disperazione della nostra umanità che accompagnano creazione e distruzione, il perenne ciclo con cui la natura si rigenera attraverso i suoi violenti sicari. Va detto, infatti, che la stessa attività vulcanica che stravolge e uccide ha anche creato le condizioni per lo sviluppo della vita, irrorando di gas l’atmosfera e scolpendo costantemente la superficie terrestre la cui “pelle”  continua a rinnovarsi e rinvigorirsi grazie ad essa. Nuove terre nascono, vecchie e logore scompaiono e, nel frattempo, il suolo si trasforma in una feconda incubatrice prodiga di deliziosi frutti. I rossi costruiscono talvolta  fagocitando, i grigi distruggono ma inseminando: genesi e apocalisse, due facce della stessa medaglia, perché nel sopraggiungere dell’una si profila all’orizzonte anche lo spettro dell’altra. In tutte le manifestazioni della  natura non esiste la morte, ma solo il cambiamento e il rinnovamento. Se solo noi esseri umani facessimo nostra questa legge inesorabile incarnandola non in una pacata rassegnazione, ma in una ponderata filosofia esistenziale, forse vivremmo con più saggezza e serenità il nostro effimero passaggio su questo pianeta. Ma tornando a noi, al di la della mera descrizione del funzionamento di questi affascinanti fenomeni naturali,  questo testo vuol fornire anche uno spunto di riflessione, quanto mai attuale, sul difficile rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. A seguito dello scompiglio causato dal vichingo Eyjafjoll, mi è stato più volte domandato se la natura non si stesse trasformando, diventando più aggressiva e accanendosi contro l’uomo.
Dalle pagine del libro emergerà chiaramente che non è così, ma è questa umanità ad essere diventata più fragile attraverso la sua tecnologia dalla quale ormai dipende totalmente. Per esempio, se la nostra attuale civiltà non fosse così legata agli spostamenti aerei, non si sarebbe neanche accorta della nube di cenere del vulcano islandese, così come non ci accorgeremmo delle tempeste solari se non avessimo un armamentario di satelliti in orbita, e una vera e propria ragnatela elettromagnetica che ci circonda permettendo di svagarci con i nostri giocattoli elettronici, e così via. In sostanza, se l’umanità rientrasse nei suoi ranghi di inquilina disciplinata di questo mondo, la natura le apparirebbe molto meno ostile.
Sabrina Mugnos
Fonte (e per saperne di più) Macrolibrarsi



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