Ventiquattro miliardi persi nei derivati, di chi è la colpa?

31 miliardi di dollari, circa 24 miliardi di euro al cambio attuale, che l’Italia ha perso dal 1994 ad oggi per errate manovre sui prodotti derivati (a tutto vantaggio di un ristretto manipolo di banche estere tra cui primeggia Morgan Stanley) non sono una cifra di poco conto. 24 miliardi di euro equivalgono a più di una delle tante manovre di aggiustamento dei conti pubblici che i governi di Silvio Berlusconie di Mario Monti hanno propinato al paese nel tentativo di salvarlo da una situazione per molti versi simile a quella di altri paesi europei. Con 24 miliardi di euro si potrebbero ridurre tasse e accise sulla benzina, si potrebbero aumentare gli ammortizzatori sociali, si potrebbero assumere i 10.000 insegnanti precari che stanno sospesi, tanto per restare ai fatti più eclatanti. In questa vicenda sorprende il fatto che poca attenzione sia stata dedicata dai media e dalle forze politiche e sociali a chi dovrebbe assumersi la responsabilità del danno la cui entità riportata da Bloomberg, 24 miliardi di euro, non è stata sino ad oggi smentita. Chi nel lontano 1994 ha preso la decisione di affidarsi ai prodotti derivati, con le più lodevoli intenzioni, speriamo, portandoci ai risultati di cui sopra? Chi in questi 18 anni non ha fatto nulla per uscire da un contratto che si rivelava sempre più un salasso per le finanze nazionali?

Un breve ripasso della recente storia politica può chiarire un quadro che nessuno sembra intenzionato a rendere pubblico. Nel 1994, anno di stipula dell’accordo, i due governi che si alternano non sono certamente guidati da sprovveduti in materia di ingegneria finanziaria e conoscenze. Sino a maggio troviamo ai vertici dell’esecutivo l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, mentre il ministero del Tesoro, è  guidato da Piero Barucci, banchiere fiorentino. Sotto il suo controllo si trovano l’immensa massa dei Bot e degli altri titoli di Stato che generano il debito pubblico nazionale, nonché il rapporto con la Banca d’Italia per la gestione della lira, ancora in tensione dopo la tempesta dei cambi. Non dimentichiamo infine che  nel 1994 alla direzione generale del Tesoro, guidata da Mario Draghi (poi governatore di Bankitalia e quindi di BCE), troviamo l’attuale vice ministro delle finanze Vittorio Grilli, in qualità di capo della commissione per le analisi finanziarie e le privatizzazioni. Insomma, governo e ministero del Tesoro sono in mano a persone competenti.

A maggio arriva a palazzo Chigi Silvio Berlusconi, appena sceso in campo, e con grande successo. Forse Berlusconi se ne intende più di immobili, di Tv commerciali e di supermercati, ma il Tesoro è retto da Lamberto Dini, brillante economista fiorentino, fino ad un anno prima direttore generale di Bankitalia. Dini non è arrivato ai vertici di Via Nazionale perché il governatore Ciampi, scrivono le cronache dell’epoca, gli avrebbe preferito il vice Tommaso Padoa Schioppa. Si raggiunge  un compromesso tra Ciampi e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e in Via Nazionale arriva Antonio Fazio. Al fianco di Dini ci sono sempre Mario Draghi e Vittorio Grilli, mentre alle finanze troviamo Giulio Tremonti. Tutte teste fini, dunque.

Gli anni passano, il contratto con i derivati continua a macinare perdite ma il ministero del ministero del Tesoro, che poi viene conglobato con le finanze, non si muove. Ai vertici del ministero nell’ordine si susseguono nel 1995 Dini ad interim nel governo da lui stesso presieduto,Ciampi nel primo governo di Romano Prodi 1996-1998, Giuliano Amato nel governo D’Alema 1999-2000, quindi Tremonti nei tre governi Berlusconi sino al 2011 e Padoa Schioppa nel secondo governo Prodi 2 del 2006-2008.

Per concludere, non sono più di undici i personaggi che dovevano per forza essere al corrente del contratto con Morgan Stanley, o per averlo progettato o per averlo autorizzato: Ciampi, Barucci, Dini, Amato, Prodi,Tremonti, Berlusconi, Draghi, Grilli, D’Alema e Fazio. Sempre che qualche direttore generale del Tesoro non si sia mosso di propria iniziativa inguaiando i conti pubblici ad insaputa dei vertici. Ma gli undici appena indicati che facevano, non erano lì per controllare?

Scriveva ieri Repubblica: nei bilanci vige il principio dello scarafaggio, dove ne vedi uno ce ne sono tanti. Perché il governo non prende posizione in merito, non rivela la vera storia di questo contratto e non rende nota l’eventuale esistenza di altri contratti del genere? L’incertezza alimenta il sospetto nella comunità degli investitori italiani ed esteri. Aveva forse ragione l’analista di Wall Street che qualche mese fa ha accusato l’Italia di essersi comportata come la Grecia nell’imbellettare i conti pubblici? E perché Morgan Stanley nel disdettare il contratto (lo ha fatto la banca, che pure ha guadagnato non poco) afferma che sarebbe stato più oneroso per lei rinnovarlo che chiuderlo? Forse la banca teme che in futuro l’Italia non potrà far più fronte agli impegni? Gli italiani hanno fatto e sono pronti a fare altri sacrifici, ma almeno devono avere certezze. Sopratutto devono sapere che in questo frangente gli autori di scippi di penna (come chiamano a Napoli i buchi finanziari) devono essere chiamati a rispondere del loro operato. Nessuno escluso. 



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