Rapimento di Aldo Moro, il 16 Marzo di trentaquattro anni fa

I ricordi di uno studente universitario che frequentava le sue oscure lezioni di diritto penale a Roma. La cordialità di Oreste Leonardi, che attendeva che Moro terminasse le lunghissime chiacchierate con gli alunni del corso. Un giorno che cambiò la storia politica italiana
Alle 9 di mattina di quel 16 marzo 1978 ero in attesa, come un centinaio di altri ragazzi, di fare un esame nella stessa facoltà, Scienze politiche, in cui Aldo Moro era atteso per alcune sessioni di laurea al piano terra dell’edificio che ci ospitava. Ricordo la solita ansia che prende qualsiasi studente, le chiacchiere con i colleghi, l’attesa per l’arrivo del professore che, insieme ai suoi assistenti, ci avrebbe interrogato.
Verso le 9,45, quando la sessione era appena iniziata, vedemmo un giovane assistente salire di corsa le scale e quasi gridare. “Hanno rapito il professor Moro e ucciso la sua scorta”. Da principio non compresi cosa avesse detto quell’uomo trafelato e apparentemente sconvolto. Entrai nell’aula dove il docente titolare si era alzato e si era messo le mani nei capelli. Vicino a me si era formato un capannello di ragazzi che mi confermarono che avevo capito bene: Aldo Moro era stato rapito dalle Brigate rosse e la sua scorta annientata.

L’esame fu immediatamente sospeso e noi tutti ci recammo al piano di sotto. C’era un’agitazione incredibile di assistenti e docenti che non sapevano bene cosa fare. Erano anni di forte contestazione; ricordo che immediatamente il collettivo di Scienze politiche (in quel periodo dominato dall’anima più radicale del movimento, quello di Autonomia operaia) organizzò un’assemblea nella quale ci accalcammo per capire un po’ meglio quello che stava accadendo ma le riposte di quelli che parlarono non furono per niente soddisfacenti. Dissero che il leader della Democrazia cristiana era stato rapito in quello che poteva tramutarsi ben presto in un attacco al movimento e ai diritti degli studenti.
Uscii dall’assemblea e chiesi qualche notizia in giro, per la facoltà. Nessuno sapeva dirmi quello che era successo e d’altronde, in quegli anni, non avevamo gli strumenti di comunicazione di oggi. Allora telefonai a casa, dopo aver fatto una fila interminabile davanti ad un telefono pubblico e mia madre mi spiegò meglio gli accadimenti. Stava seguendo una straordinaria diretta del TG1 (allora era uno dei migliori notiziari televisivi del mondo) con Paolo Frajese che era andato da solo, con un cameraman, in via Fani e stava mostrando i corpi degli agenti morti sull’asfalto (uno di loro, coperto da un lenzuolo, aveva vicino a sé una Beretta che non era riuscito ad usare) e la Fiat 130 blu presidenziale, dove giacevano i corpi senza vita dell’autista Domenico Ricci e del maresciallo dei carabinieri  Oreste Leonardi.
Quest’ultimo era una conoscenza diretta per molti studenti di Scienze politiche a Roma. Aldo Moro, infatti, insegnava “Diritto e procedura penale” ed avevo assistito a molte delle sue lezioni, pur non essendo un suo alunno. Diciamo che aveva vinto la curiosità di vedere il Presidente del Consiglio fare lezione in un’aula universitaria (nel 1976 era a capo del suo quinto governo prima di passare la mano ad Andreotti e al “compromesso storico” che lui stesso favorì) . Ricordo che spiegava le fattispecie giuridiche più o meno come in un discorso congressuale, con una lingua colta e causidica, un po’ incolore, spesso poco comprensibile. Un giorno che uscii prima che avesse terminato, sospese la lezione e mi guardò con aria di rimprovero.
Moro aveva un rapporto molto cordiale con gli alunni. Dopo le lezioni, soleva intrattenersi per almeno quaranta minuti a chiacchierare del più e del meno con tutti, fino a quando non vedeva il suo collega attendere sulla porta di ingresso dell’aula per dargli il cambio in un’altra lezione. Soltanto allora si decideva ad uscire. Una volta gli chiesi con molta impudenza: “Presidente, come va con i socialisti?”. Lui mi guardò sornione e rispose: “Non mi faccia parlare, per favore”.
Oreste Leonardi lo aspettava di fuori ed anche lui non era da meno del suo protetto: chiacchierava con gli studenti, ne prendeva in giro parecchi che erano visibilmente preoccupati per l’esame da sostenere, mentre Domenico Ricci soleva, al contrario rimanere nell’ampia e comoda auto a leggere qualcosa. Il giorno del rapimento vidi il viso di quel maresciallo, sempre sorridente, e me lo immaginai crivellato di pallottole, la testa reclinata sul sedile, verso l’interno, il sangue raggrumato. Fu così che in effetti le fotografie lo rappresentarono.
Moro, il giorno del rapimento, avrebbe dovuto partecipare ad una sessione di laurea ed aveva con sé le tesi degli studenti che lo avevano come relatore. La vita nella facoltà, da quel giorno, cambiò radicalmente. L’atmosfera divenne più cupa, molte delle lezioni venivano rimandate e molti dei docenti (fra i quali c’erano Giuliano Amato, futuro presidente del consiglio, Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia ed altri autorevoli esponenti del mondo politico) cominciarono ad essere scortati. Il pericolo era talmente serio per loro che, soltanto due anni più tardi, sempre le Brigate rosse uccisero, a pochi passi dalle aule in cui Moro avrebbe dovuto tenere le sue sessioni di laurea, Vittorio Bachelet, che cadde lungo le scale con accanto la sua assistente Rosi Bindi.
Nulla più sarebbe rimasto uguale a se stesso dopo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, quel 16 marzo di trentaquattro anni fa.


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