Senza l’art. 18 i salari caleranno ancora

È proprio vero che quella sull’art. 18 è una battaglia ideologica. Non da parte del sindacato, ma del governo Monti. Solo così si può spiegare un’iniziativa che oggettivamente contraddice la proclamata politica di rigore fiscale e di crescita economica. Cominciamo col dire che la possibilità di reintegra nel posto di lavoro, contenuta nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in quasi 42 anni di vigenza non ha mai ostacolato licenziamenti per difficoltà economiche od obiettive riduzioni di attività dell’azienda. Questa è esperienza sotto gli occhi di tutti, viste le imponenti contrazioni dell’occupazione verificatesi nel corso degli anni nel nostro Paese. L’art. 18 costituisce, invece, un deterrente a fronte di licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, intimati solo per punire il lavoratore che, ad esempio, abbia chiesto di godere delle ferie, di vedersi pagare lo straordinario od anche solo le retribuzioni previste dal contratto collettivo, ecc.: le aziende con più di 15 addetti per unità produttiva sanno che, vigente l’art. 18, un licenziamento ritorsivo – se riconosciuto tale dal giudice – potrebbe loro costare molto più di quella limatura del costo del lavoro che si propongono di realizzare, sicché il gioco può non valere la candela. Ma una volta abrogato l’art. 18 si realizzerebbe un’ulteriore immediata contrazione del livello medio delle retribuzioni in Italia, che già oggi sono drammaticamente fra le più basse in Europa. 

Infatti, venuto meno o sterilizzato il deterrente dell’art. 18, anche aziende tradizionalmente rispettose dei diritti dei propri dipendenti saranno tentate dal ricorrere alle stesse pratiche in uso presso molte piccole imprese che o non sanno cosa voglia dire applicare i minimi sindacali o, peggio, li applicano solo apparentemente nella busta paga che si fanno quietanzare dai lavoratori, cui però consegnano solo una parte dell’ammontare formalmente riportato in busta paga (a volte fino al 50% in meno), sicure che i dipendenti non potranno protestare, pena il licenziamento senza speranza alcuna di reintegra all’esito d’un giudizio in tribunale. Oppure, anche senza ricorrere a prevaricazioni così brutali, libere ormai dal deterrente dell’art. 18, le aziende cominceranno subito a non pagare più lo straordinario, la tredicesima, gli scatti d’anzianità e quant’altro, di fatto riducendo sempre di più il livello generale dei salari e, nel contempo, determinando una riduzione delle entrate fiscali, perché quel che prima era regolarmente corrisposto in busta paga e tassato alla fonte sparisce come reddito da lavoro dipendente per trasformarsi in profitto (illecito) di impresa. Questo profitto, a sua volta, sicuramente domani verrà nascosto al fisco (domani, visto la sfasamento cronologico tra il pagamento delle imposte sul reddito da lavoro dipendente – che avviene attraverso ritenuta alla fonte in tempo reale – e quello delle imposte sul reddito da impresa): infatti, se un’azienda non paga i propri dipendenti difficilmente sarà più onesta con l’erario.
Per quanto sia difficile stimare in anticipo i numeri esatti della ripercussione della perdita di quella che è l’essenziale garanzia del reddito da lavoro dipendente, nondimeno è innegabile che spostare altre porzioni di ricchezza dal lavoro dipendente al reddito di impresa apre spazi ulteriori di evasione fiscale e impoverisce quella domanda interna che il governo dichiara di voler sostenere nella cd. fase 2, dell’aiuto alla crescita. Sia chiaro che ciò non vale sempre, dovunque e in assoluto (non tutti i paesi europei conoscono la reintegra nel posto di lavoro); tuttavia sicuramente vale nella situazione data nell’Italia di oggi. Né è immaginabile – come pure si sente dire – che in contropartita alla rinuncia ai diritti (oggi l’art. 18) si possano avere incrementi salariali, secondo uno scambio “meno garanzie, ma più soldi”. Minor garanzia del posto di lavoro significa minor forza contrattuale: come i lavoratori, così indeboliti, possano poi conquistarsi miglioramenti economici e, soprattutto, farseli in concreto pagare resta un mistero, anche perché l’esperienza delle tante forme di precariato che colpiscono i giovani dimostra che alla flessibilità in uscita si accompagnano assai modesti livelli salariali (eccezion fatta per i dirigenti). Del tutto suggestiva è, infine, l’obiezione secondo cui bisogna prima pensare alle aziende per potersi poi preoccupare dei lavoratori. In realtà, dal momento che la stragrande platea di consumatori è costituita proprio da percettori di reddito fisso, è forse possibile pensare alle aziende mentre si mandano a picco i consumatori che quelle stesse aziende alimentano con la propria domanda?



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Commenti

Anonimo ha detto…
Il 70% dei percettori di reddito fisso non ha la garanzia della art 18!!...lavoratori di serie B..Niente casa integrazione...niente di niente!!

Deve continuare ad essere così?...nel mondo...non solo in Europa non c'e un articoli 18..baluardo di civiltà.I casi sono due: o siamo l 'unico paese civile al mondo oppure il mondo del lavoro funziona ugualmente. L'assunto che considera le aziende quasi come associazioni a delinquente non mi convince affatto!! Vedremo più chiaramente i nuovi scenari quando la riforma sarà completa includendo anche quella del welfare. Non do per scontato che sia una buona riforma ma è altrettanto evidente che lo status quo non funziona più
Anonimo ha detto…
C'è sempre il rovescio della medaglia: impossibile lasciare a casa i fannulloni!

Ma il problema di fondo è la difficoltà a cambiare lavoro per chiunque! Ecco perchè siamo tutti appiccicati al posto fisso!

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