Processo Aldrovandi, poliziotti colpevoli spalleggiati dalla Questura


Gli hanno schiacciato il cuore. Anche la corte d’appello di Bologna ha messo nero su bianco che Federico Aldrovandi è stato ucciso dalla «violenta e pesante contenzione da parte delle forze di polizia». La droga non c’entra («dato tossicologico modesto»), né c’entra la “excited delirium syndrome” su cui si sono asserragliati i consulenti della difesa degli agenti - uno dei quali ritenuto tanto poco attendibile quanto pronto a smentire sé stesso - tanto nel primo, quanto nel secondo processo di cui sono appena uscite le motivazioni che confermano le condanne a 3 anni e mezzo per eccesso colposo.
E’ partito dal cuore di Federico il ragionamento del giudice di secondo grado. Da quella foto spuntata dopo molto dopo le «tormentate indagini preliminari» che hanno prodotto inservibili perizie. Quel cuore aveva due ematomi contrapposti: «Segno evidente e inequivocabile» di un trauma. In breve: il ragazzo ammanettato a faccia in giù aveva una fame d’ossigeno che non poteva soddisfare visto che lo schiacciavano i corpi dei suoi aggressori e la sua pressione arteriosa era aggravata dalla «violenta colluttazione fisica». I segni sul corpo sono anche quelli dei manganelli riportati a pezzi in centrale.
Stabilito questo la Corte ha provato a ricostruire lo scenario stabilendo che la volante Alpha 3, la prima a giungere in via Ippodromo all’alba di quel 25 settembre del 2005, fosse sul luogo del delitto ben prima di quanto dichiararono gli agenti. Prima delle chiamate al 112 e al 113 di due abitanti della stradina allarmati dalle grida e dai rumori. Il giudice non ha creduto che il primo “scontro” tra il ragazzo e la volante, con la ritirata degli agenti, l’arrivo dei rinforzi di Alpha 2 e la predisposizione allo scontro finale tra quattro armati di manganelli e un diciottenne a mani nude «non particolarmente corpulento», si sia svolto in una manciata di minuti a cavallo delle 6. Tanto più che uno dei quattro colpevoli è stato registrato mentre ammetteva al telefono di averlo «bastonato di brutto per mezz’ora». L’ambulanza fu chiamata solo a cose fatte e arrivò «quando ormai il tragico epilogo del pesante intervento si era compito». Tuttavia la Corte d’appello ritiene anche che Federico quella notte fosse in stato di agitazione per via delle sostanze, smentendo in parte le conclusioni del processo ferrarese. Ma anche un “bad trip”, un violento senso di angoscia e terrore forse per il tardivo effetto dell’Lsd, avrebbe imposto agli agenti un contegno ben diverso dall’«assalto a manganellate». Dunque le grida sentite da chi allertò la questura sarebbero quelle prodotte dall’incontro tra Aldrovandi e due dei suoi assalitori. E questo fa tornare in mente il «mancato testimone», quel signore che chiamò “Chi l’ha visto?” per descrivere una scena simile salvo poi rimangiarsi tutto in Aula nello scetticismo generale. Infatti, il giudice di secondo grado non crede alla versione ufficiale dell’assalto di Federico alla prima volante poiché «priva di un serio supporto probatorio, smentita dall’assenza sul cofano di qualunque segno di rotture». I segni sullo scroto del ragazzo sono da ricondurre alle botte. In generale, l’intervento degli agenti «cooperanti» fra loro, oltre che violentissimo e consapevole, è anche stato inadeguato per fermare un ragazzo che aveva posto in essere un «goffo» tentativo di sforbiciata testimoniato dalla superteste camerunense. Anche fosse stato solo «un pazzo che si agita da solo in un parco e ingiustificatamente li aggredisce» resta l’«assoluta distanza della condotta degli imputati dalla doverosa linea comportamentale».
Ma «perché c’era una volante a fari spenti in una stradina chiusa», via Ippodromo, e «perché l’intera ricostruzione degli imputati e della Questura di Ferrara, fin dal primo momento, sia stata indirizzata a creare e avvalorare apparenze tali da contrastare tale dato?». La domanda del giudice resta «priva di risposta».
Una sentenza che, per Patrizia Moretti, la mamma di Federico, si incrocia con le risultanze della cosiddetta inchiesta bis, quella per cui altri quattro poliziotti hanno dovuto rispondere dei depistaggi delle prime ore. «Manipolazioni ordite dai superiori», dirà anche Daniela Margaroli, la giudice d’appello, «attività di falsificazione e distorsione dei dati probatori» che vanno a comporre, assieme alle condotte dei quattro un contesto di «discredito» per il corpo di Polizia che lo stesso Viminale ha «implicitamente riconosciuto» con il risarcimento alla famiglia già prima del secondo grado.
Le difese dei quattro poliziotti hanno già annunciato ricorso in Cassazione. Resta, per i genitori del diciottenne ucciso, Lino e Patrizia, quella domanda senza risposta sulla prima fase del contatto tra gli agenti. Resta l’appello di sei anni fa, «chi sa parli», e a cui ha risposto in pieno, forse, solo una cittadina. Restano i danni dei depistaggi della prima «tormentata» fase delle indagini preliminari che avrebbero influenzato la prima pm che seguì il caso. «Quello che vorrei - spiega Fabio Anselmo, legale degli Aldrovandi, a Liberazione - è che questo caso serva per spazzare via il pregiudizio deleterio della presunzione di fidefacenza degli imputati in divisa e dei loro colleghi che indagano. Gli imputati in divisa andrebbero trattati come imputati normali e le indagini su di loro affidate a terzi. Ma questo non accade mai».

Checchino Antonini




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