Il debito pubblico divora popoli e stati


Debito pubblicoAncora tu? Ma non dovevamo non vederci più? Devono aver pensato questo, gli italiani, di fronte al riemergere del problema dei problemi: il debito pubblico. Una cosetta, per capirci, da 1890,6 miliardi di euro. Che certo non nasce ieri. E mentre il governo cerca di districarsi fra i veti (interni ed esterni all’esecutivo) proprio per arginare la voragine, noi cerchiamo di guardare un po’ più a fondo dentro questo buco nero che ormai da anni sembra perseguitare governi e, soprattutto, cittadini.
Che cosa è?
La definizione ufficiale del debito pubblico data dal Consiglio europeo è la seguente: «Per debito pubblico si intende il valore nominale totale di tutte le passività del settore amministrazioni pubbliche in essere alla fine dell’anno, ad eccezione di quelle passività cui corrispondono attività finanziarie detenute dal settore amministrazioni pubbliche». Più genericamente, l’Enciclopedia Treccani spiega trattarsi dell’«importo complessivo dei prestiti che lo Stato, le aziende statali autonome, le regioni, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, le imprese e gli enti speciali appartenenti allo Stato contraggono periodicamente a fronte del deficit di bilancio [...]. La copertura del d.p. viene di solito realizzata con l’emissione di titoli di Stato (Bot, Cct ecc.) o con l’aumento delle imposte correnti». Per farla breve e parlare (è proprio il caso di dirlo) “in soldoni”: si ha debito pubblico quando le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate. Elementare. O forse no.
Quando si è formato...
Facciamo un po’ di storia. In Italia il rapporto percentuale tra il debito e il Prodotto interno lordo era di circa il 30% negli anni ’50 e ’60. Negli anni ’70 veleggiava tra il 44 e il 55%, con punte del 65. In quell’epoca, il resto dell’Europa stava più o meno come noi. Il problema è che i nostri cugini d’oltralpe rimarranno su quei valori per tutto il ventennio successivo. Da noi, invece, accadrà qualcosa. Di strano e di pericoloso. Gli anni ’80, infatti, vedono il nostro deficit ampliarsi a dismisura: a metà del decennio (in piena era Craxi), il rapporto debito/Pil supera l’80%, nel 1990 siamo già al 94,7%. Ma la corsa non si ferma, toccando l’apice nel 1994, con un preoccupante 121,8%. Da lì in poi saranno alti e bassi, sempre su valori folli, sia pur con lievi diminuzioni tra il ’95 e il 2005 (sia con i governi di sinistra che con quelli di destra) per poi tornare a risalire.
...e come
Stabilire le responsabilità della creazione di questo abisso senza fondo sarebbe ovviamente difficile. Quando si parla di grandi meccanismi e lunghi periodi, del resto, è probabile che il colpevole non sia una persona ma, piuttosto, un sistema, una tendenza, una mentalità. Sicuramente determinati da una serie di concause. Gli analisti, comunque, si dividono. C’è chi attribuisce le responsabilità all’espansione del welfare successiva ai grandi mutamenti sociali degli anni ’70. Chi alla classe dirigente socialista dell’epoca craxiana, cui viene rimproverata una cera mancanza di oculatezza finanziaria. Qualcun altro va più indietro, precisamente al ferragosto del ’71, quando gli americani (Nixon, per la precisione) posero fine al regime dei cambi fissi instaurato dagli accordi di Bretton Woods. Il precedente sistema basato sulla convertibilità aurea del dollaro, infatti, aveva retto fino all’invasione dei mercati internazionali da parte dei petrodollari. La svolta di Nixon decretò la nascita della finanziarizzazione senza controlli, con denaro nato letteralmente dal nulla e senza corrispettivi reali.
Per colpa di chi?
D’accordo: macrosistemi, tendenze di lungo periodo, grandi mutamenti finanziari. Ma c’è qualche nome e cognome da fare per individuare i veri responsabili dell’aumento incontrollato del debito? Un nome è stato fatto ed è indubbiamente il più comodo da pronunciare per tanti: quello di Bettino Craxi. Eppure, per quanto il leader socialista possa avere le sue colpe, dovremmo forse guardarci attorno, fra i politici ancora in circolazione. Magari tra coloro che certi “ambienti finanziari” vorrebbero alla guida di improvvisati governi “tecnici” in possesso di tutte le ricette giuste (giuste per chi?). Già a inizio anno, precisamente il 4 gennaio, Franco Bechis faceva su Libero i nomi e i cognomi di coloro che, numeri alla mano, hanno maggiormente contribuito ad allargare il buco. Il primo classificato risultava essere Carlo Azeglio Ciampi. Durante il suo governo tecnico (1993/94) il debito aumentò di 117 miliardi e 568 milioni di euro (174 miliardi di euro a valore attuale). C’è chi fece peggio, in realtà: Amintore Fanfani, nel 1987, fece aumentare il debito pubblico di 13,692 miliardi di euro mensili (a valore attuale). Giuliano Amato, invece, nel 1992/93 allargò il buco di 13 miliardi e 543 milioni di euro ogni mese, sempre a valore attuale. E tuttavia, proseguiva Bechis, «visto che sia Fanfani che Amato nella storia repubblicana hanno guidato anche altri governi con migliori performance, fatta la media fra i vari esecutivi il primato in classifica come migliore scaricatore assoluto di debito pubblico sulle spalle degli italiani spetta proprio a Ciampi. Fanfani conquista comunque la medaglia d’argento con 11,448 miliardi di debito in più al mese durante tutti i suoi governi. E quella di bronzo spetta a Craxi, che con 10,8 miliardi di debito mensile regalato agli italiani supera di una spanna Spadolini e Forlani».
Monsieur le créditeur
C’è poi un altro aspetto interessante (e un po’ inquietante) nella vicenda del debito pubblico. Ricordate quando, a luglio, il governo di Pechino si rivolse a un Obama nei guai con il debito Usa con lo stesso tono in genere usato da Washington con gli stati vassalli? «Speriamo che il governo degli Stati Uniti adotti politiche e misure responsabili che garantiscano gli interessi degli investitori», dicevano i cinesi. E avevano le loro ragioni, dato che quei fantomatici investitori sono soprattutto loro. I cinesi, infatti, posseggono quasi il 10% dell’intero debito Usa. Ecco, in Italia succede una cosa simile, solo con la Francia. Il New York Times, nel maggio del 2010, spiegava che Parigi detiene 511 miliardi del nostro debito, pari al 30% del debito stesso e al 20% del Pil transalpino. Hai capito i francesi. Gli stessi che hanno messo le mani sulla Libia che un tempo era il nostro “cortile di casa”. Gli stessi che danno le scalate ai nostri colossi industriali. Stai a vedere che, come al solito, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca...
Pagare o non pagare?
In tutto questo, come avrebbe detto Lenin: che fare? Nel breve periodo e nella contingenza drammatica che stiamo vivendo, ovviamente, si mira a tamponare, a tagliare, a risparmiare, a recuperare. Qualche analista, e in modo trasversale alle categorie di destra e sinistra, comincia tuttavia a mettere in discussione l’intera impalcatura che regge quella che è denominata “la truffa del debito”. Il giovane esperto di geopolitica Daniele Scalea, ad esempio, dichiara di non «negare l’opportunità di ridurre la spesa pubblica» ma contesta «che, lungi dal puntare agli sprechi, si opti per tagli salomonici, e che le ristrettezze di bilancio siano dettate e commisurate agl’interessi da pagare ai rentier. Il rischio è che, se tra qualche decennio l’Italia avrà interamente pagato il suo debito, l’avrà però fatto a costo dell’immobilismo e della stagnazione, ritrovandosi così retrocessa nel “secondo mondo”, o addirittura più indietro». Un ragionamento analogo lo ha espresso Salvatore Cannavò, per il quale «si può certo puntare il dito contro il debito pubblico italiano, il terzo debito del mondo, ma senza dimenticare due dati. Quel debito c’era anche un mese fa, un anno fa, tre anni fa e non ha prodotto nessun attacco speculativo, nessuna crisi emergenziale. Secondo, quel debito è la misura non solo della dissennatezza della politica italiana degli ultimi trent’anni ma anche di una gigantesca redistribuzione del reddito dai salari, stipendi e pensioni ai profitti delle grandi banche e della società finanziarie internazionali che detengono gran parte del debito italiano». E allora sorge una tentazione: non pagare. O pagare solo in parte. Rinegoziare il debito. Come fece l’Ecuador nel 2007 o l’Argentina nel 2005. Pazzie? Teorie visionarie? Be’, se i lucidi, razionali e ortodossi analisti economici ci hanno portato sin qui, forse vale la pena di tentare la carta della follia...





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