Il contropotere è sempre on line


web_contropotereLe ultime settimane sono state intense per la Rete. Molte le notizie e le analisi relative alla sua completa maturità in quanto medium, dopo una rapida e fulgente adolescenza. La notizia che il blog dell'«Huffington Post» aveva superato il «New York Times» nei contatti giornalieri è stato ritenuta la data di ingresso alla sua maggiore età, dimenticando, però, che il sito fondato dalla giornalista statunitense Arianna Huffington altro non è che la versione digitale del più classico che più classico non si può giornale di carta. Dietro la retorica sulla maturità della Rete c'è però un grumo di verità difficile da ignorare. Nella contemporanea e pervasiva rappresentazione mediatica della realtà, che fa scrivere alla popstar della filosofia Slavoj Zizek che i media non fanno altro che desertificare il reale, la Rete ha l'indubbia capacità di consentire la sottrazione al potere performativo dei media. Se poi l'attenzione si concentra sulle vicende italiane, la perdita di credibilità e di legittimità dei media tradizionali è vieppiù evidente. E a restare stupiti sono soprattutto i giornalisti, che poco candidamente ammettono che l'informazione sulle recenti elezioni amministrative e sui referendum ha avuto nei social network e nella blogsfera i canali privilegiati, mettendo così in scacco network televisivi e carta stampata.
Un blog all'indiceSul rapporto tra Rete, media, opinione pubblica e movimenti sociali occorre tuttavia citare altre vicende che rendono questa matassa più imbrigliata di quanto sembra. Il primo caso riguarda la vicenda del sito A Gay Girl in Damascus. La storia è nota. Una ragazza siriana che non nasconde di essere lesbica e che «posta» testi antiregime, facendo diventare il sito una delle fonti di riferimento per i giornalisti inglesi e statunitensi che vogliono capire cosa accade nelle strade di Damasco. Poi arriva la notizia: Amina Abdallah Arraf al Omari, questo il nome della ragazza, è stata forse arrestata dalle forze di sicurezza del suo paese. Tam-tam nella Rete; iniziano le forme di mobilitazione a suo favore, fino a quando un giornalista statunitense, Andy Carvin, avanza il dubbio che A Gay Girl in Damascus sia un'entità fittizia.

In Rete comincia il lavoro d'indagine per verificare o meno i sospetti del giornalista statunitense. Infine, la scoperta: l'autore del blog è un giovane ricercatore statunitense, residente a Edimburgo. Tom MacMaster, questo il suo nome, viene raggiunto mentre è in vacanza con la sua compagna, ricercatrice esperta della realtà siriana. Si dichiara sorpreso, si scusa per il clamore che ha suscitato la vicenda di Amina. A questo punto la parola passa ai «professionisti dell'informazione», che recitano il mantra che non sempre la Rete è affidabile perché la comunicazione non è gestita da «intermediari istituzionali» tra la realtà e chi consuma informazioni.
Tesi ampiamente maggioritaria tra i giornalisti, che spesso usano la Rete come fonte di informazione, ma rivendicano alla propria categoria il compito di decidere se un'informazione sia corretta o meno. Ma tale convinzione ha i piedi d'argilla. In primo luogo, nessuno ha mai smentito quello che è stato scritto sul sito. Fittizia era solo l'identità. La potenza comunicativa de A Gay Girl in Damascus non stava però nelle scelte sessuali della protagonista, bensì nella capacità che aveva di restituire il clima culturale, sociale, politico della realtà siriana. Il blog mette infatti a fuoco il potere della comunicazione mediatica: potere che risiede nel rispecchiare la realtà, reinventandola. Ed è questo potere inaspettato della Rete che attira l'attenzione delle corporation globali dell'informazione e dell'intrattenimento, nonché dei governi nazionali.
Il virtuale è il realeAltro fatto di cronaca da ricordare e che può trasformare la cosiddetta maturità della Rete in un incubo. Si tratta delle indiscrezioni diffuse sul progetto voluto dal presidente Barack Obama di creare una «Rete ombra» da mettere a disposizioni per gli attivisti che lottano nel mondo per la democrazia e la libertà. Su come dovrebbe funzionare la Rete ombra poco si sa, ma i boatos della Rete sottolineano invece contatti tra «emissari» di Barack Obama, blogger e mediattivisti da sempre diffidenti rispetto all'operato della presidenza statunitense.
Al di là, dei contatti, veri o presunti, quello che emerge è la volontà del governo Usa di cercare di diventare nuovamente un protagonista nella governance della Rete, alla luce del fatto che il web sta diventando il canale privilegiato per far circolare informazione e contenuti. Ed è proprio questa centralità della Rete nella produzione dell'opinione pubblica a costituire il cuore del problema. Per affrontarlo, parto dall'incontro che si è tenuto a Roma venerdì scorso sulle cosiddette «primavere arabe». Organizzato da questo giornale, il meeting ha contemplato una sessione su come la Rete ha contribuito alla rivolta tunisina, egiziana e come è utilizzata in Siria, Barhein, Yemen, Libia. Interessantissime sono state le testimonianze di Nermeen Edress e Amira Al Hussaini. Ma su questo il rinvio è agli articoli di Marina Forni e Fausto della Porta, apparsi su «il manifesto» del 11 giugno. La tesi di Nermeen Edress è la più provocatoria. Secondo la studiosa e attivista, la Rete è stata solo uno strumento informativo, perché la rivoluzione in Tunisia, Egitto è stata fatta nelle piazze, cioè fuori dallo schermo. E nelle strade si battono i libici che vogliono cacciare Gheddafi, i siriani che vogliono distruggere la gabbia d'acciaio imposta a loro dalla dinastia Assad, e così via.
Tesi condivisibile, ma tuttavia indifferente a un'altra e egualmente evidente tenenza che coinvolge la Rete, cioè al venir meno della dicotomia tra virtuale e reale. La Rete, infatti, è diventata parte integrante della vita reale. La connessione al World wide web non è una prerogativa di una minoranza, ma esperienza quotidiana per miliardi di persone. Anche perché si è on line usando non un computer, ma un semplice telefono cellulare, manufatto tanto diffuso nel Nord e nel Sud del Pianeta. A mo di esempio: molte delle immagini, racconti sulla mobilitazione iraniana di due anni fa sono stati veicolati da Twitter, cioè da un social network che ha fatto della convergenza tecnologica tra telefono e Rete il suo punto di forza. Dunque si è in Rete anche senza un computer.
Il venir meno del confine tra reale e virtuale non è esente da problemi. Infatti, mentre la Rete diventa il canale comunicativo più influente, continua ad essere operante la convenzione sociale che assegna ai media tradizionali il compito di produrre l'opinione pubblica. Una convenzione che trova la sua legittimazione dal riconoscimento del suo ruolo da parte del sistema politico e dal potere economico. Lo sviluppo della Rete ha però ridotto tale convenzione in un simulacro, sempre più esposto alla critica e alla contestazione.
Intervenendo a Plaza Cataluña in un incontro organizzato dagli indignados di Barcellona, Manuel Castells ha sottolineato come la Rete consenta una interattività che produce condivisione e la possibilità di sviluppare punti di vista autonomi dalla agenda dettata dai media tradizionali. Studioso di lungo corso della Rete e considerato uno dei massimi esperti dell'«Era dell'informazione», Castells ritiene che la comunicazione on line è immediatamente politica perché crea una messa in discussione dell'ordine del discorso dominante, veicolato dai media, considerati ormai un pilastro del potere costituito. La Rete agisce quindi come un contropotere che può dare vita a forme di mobilitazione e di organizzazione politica autonoma, laddove riesce a annullare quella convenzione sociale che stabilisce un confine netto tra la Rete (il virtuale) e il Reale. In altri termini, la Rete diventa un potente strumento comunicativo quando stabilisce legami con le reti sociali presenti nelle strade.
Oltre la fabbrica del consensoLa critica alla tv, radio e carta stampata in quanto «fabbrica del consenso» evidenzia il fatto che la comunicazione è veicolata dai social network, dalla blogsfera, contesti in cui si sviluppano punti di vista che puntano a sottrarsi al potere manipolatorio dei media mainstream, attraverso modalità che fanno della condivisione il perno su cui fare leva per sviluppare una sfera pubblica autonoma da quella imposta dal potere politico, economico e le corporation dell'informazione. Ma è pur vero che nella Rete si sviluppano nuvole di informazioni che si diffondono, si restringono. Facebook, Twitter e la blog sfera sono le infrastrutture di questo cloud computing. È su queste nuvole che Google, Facebook, Twitter, ma anche Yahoo!, Apple, Microsoft vogliono fare profitti. Organizzare e gestire un cloud computing significa infatti conquistare un posto al sole nel settore che costituirà il mercato degli anni a venire. Tutte le imprese vogliono cioè acquisire un vantaggio competitivo sulle altre, stabilendo così delle barriere di ingresso per i nuovi venuti. Dunque, non tutto è oro quel che luccica, perché le nuvole dei dati possono diffondersi o restringersi, ma è altresì vero che le strategie tese a farle diventare materie prime prodotte «autonomamente» per poi impacchettarle, venderle e stabilire strategie di controllo ex-post sono una delle caratteristiche di cui tenere in debita considerazione di chi vede, ingenuamente, nella rete una sorta di Eden. Come scrive in The Googlization of Everything lo studioso Siva Vaidhyanathan (Univeristy of California Press. Ne ha già parlato Remo Ceserani su questo giornale il 5 maggio del 2011), la tendenza a ricondurre la produzione dei contenuti nella Rete alle regole auree del capitalismo è un fattore che non va mai sottovalutato. Ma le corporation globali sono altrettanto consapevoli che le nuvole devono formarsi senza nessun controllo diretto, lasciando alla cooperazione sociale una discreta autonomia e libertà di azione. Il controllo si esercita, nelle loro intenzioni, sulla trasformazione dei beni comuni (la conoscenza e informazione, in questo caso) in fattori produttivi capitalistici. Per questo motivo, la querelle sul diritto d'autore è così importante: non per garantire rendite di posizione sul solo software, ma per effettuare l'enclosure del sapere diffuso. Il case study delle primavere arabe è quindi importante, perché evidenziano il fatto che è in corso uno scontro per stabilire chi eserciterà la nuova egemonia economica a livello globale, come d'altronde ha più volte evidenziato la ricercatrice indipendente Donatella Della Ratta su questo giornale e nel volume Al Jazeera, Media e società arabe nel nuovo millennio (Bruno Mondadori).
Arrivano i network globaliIl riferimento è ai media arabi (Al Jaazeera, Al Arabya), ma anche a quei media globali (Cnn, Bbs, News Corporation) che sono consapevoli che l'egemonia nel campo dell'informazione e dell'intrattenimento si avrà solo se riusciranno a diventare il motore del cloud computing, vincolando così i singoli «naviganti» a un'impresa per stare in Rete, lasciando relativa autonomia e libertà alla produzione di contenuti. Poco si sa sulle strategie cinesi, ma è certo che a Pechino non stanno con le mani in mano.
La posto in gioco è dunque quel nuovo modo di produzione della pubblica opinione che oscilla tra autonomia e sussunzione, per evocare l'immagine marxiana del passaggio al capitalismo. Soltanto che in questo caso, il passaggio è da una forma di capitalismo ad un'altra, con un regime di accumulazione distinto da quello precedente, ma incentrato comunque su un lavoro vivo e una cooperazione sociale elementi centrali nella produzione della ricchezza e da ricondurre quindi alla legge del valore, e dunque del plusvalore relativo e assoluto.
Tendenze, dirà qualcuno, che possono essere smentite dal divenire storico. Certo, come sempre, ma si impone una riflessione su come viene prodotta l'opinione pubblica, categoria ostile ai movimenti sociali, che sono infatti spazi di politicizzazione dei rapporti sociali. Cioè sono lo strumento che può interrompere la cattiva dialettica tra conflitto e innovazione da parte, sottraendo il cloud computing, cioè il sapere, le conoscenza, i punti di vista, la capacità di sviluppare autonoma cooperazione produttiva creati dal conflitto sociale e di classe al triste destino di diventare materia prima del capitalismo digitale.
fonte: Il Manifesto






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