Patagonia, le dighe dell'Enel e la natura violata

Il lago Carrera nella Patagonia cilena


Nell'autunno scorso la campagna "Patagonia sin represas", Patagonia senza dighe, scontava un momento di sconforto, di crisi d'identità si direbbe, perchè sembrava confrontarsi con un sistema di potere e di informazione troppo più forte di qualsiasi sentimento e di qualsiasi possibile iniziativa ambientalista.
Una sorta di lotta contro i mulini a vento, perchè il potere dell'impresa era capace di oscurare in un attimo il lavoro capillare portato avanti sul campo dalle associazioni.


In Patagonia è pratica normale che la HydroAysen, l'azienda cilena che opera in Cile in nome e per conto dell'Enel -che acquisendo la spagnola Endesa, ha acquisito ogni diritto di sfruttamento delle acque in Cile- finanzi i progetti dei contadini, che in un baleno si ritrovavano in mano il denaro per realizzare un proprio sogno.


Politica di incoraggiamento, di sostegno alle iniziative, di sviluppo, dice Marisol Martinez, il sindaco di Puerto Aysen, un paesino alle porte di Coyaique, la capitale della Patagonia cilena, dove un'altra azienda intende costruire altre dighe: un sistematico acquisto delle coscienze, dicono invece gli ambientalisti, affranti nel constatare l'avanzata irresistibile di questo sistema di "sostegno".


Persino le comunità cittadine godono di questa iniezione di denaro chiamata "sostegno", comuni che si ritrovano in un batter d'occhio con i fondi per le scuole, per le attività sportive e quant'altro, con i contadini soddisfatti per aver magari costruito una casetta, riempito la pancia per qualche tempo senza porsi tanti problemi, essendo le questioni ambientali- è noto- una fisima degli abbienti.
E poi la volontà politica di garantire al Cile l'energia di cui ha bisogno per svilupparsi e crescere economicamente.


"Cile necessita energia", è la frase più ripetuta negli ambienti politici, in un impegno politico-imprenditoriale che lasciava poche speranze che la Commissione Ambientale potesse bocciare un progetto che devasta un'intera regione.


"La Commissione è un'estensione del Governo", spiega uno degli avvocati di "Patagonia sin represas", Macarena Soler, aggiungendo che la percentuale dei progetti bocciati dalla Commissione è pari all'1%: "e non perchè veramente dannosi per l'ambiente", spiega ancora, "ma semplicemente per questioni formali, per non aver rispettato in pieno le procedure stabilite e, dunque, rimandati a casa in attesa di ripresentarsi con le carte in regola".


E' questo meccanismo che, obiettivamente, era difficile mettere in scacco, questa macchina del consenso composta da volontà politica, impresa, decisionismo ambientale e interventi sul territorio.
L'ultima speranza, l'ultimo argine ideale per difendere la Patagonia dagli argini in cemento, era proprio la Commissione Ambientale, che alla fine ha promosso il progetto che prevede la costruzione di 5 dighe lungo i due grandi fiumi della regione, il fiume Baker ed il Fiume Pascua, più una sesta diga lungo il Rio salto, che dovrà fornire energia elettrica per i lavori delle altre.


La Commissione ambientale ha approvato con undici voti a favore e uno contrario il progetto.
Una volta realizzati gli sbarramenti, saranno sommersi 5.600 ettari di un raro ecosistema forestale.
"Siamo in uno degli ultimi paradisi al mondo", spiega Luca Manes di CRBM, una delle organizzazioni che più si sono battute per la campagna "Patagonia senza dighe": " la costruzione delle dighe significa devastare per i prossimi 12 anni un territorio di grandissimo pregio ambientale per trasformarlo in un cantiere a cielo aperto, quando in questo arco di tempo potrebbe al contrario sviluppare una sua naturale vocazione turistica.
Se pensiamo che l'adiacente Patagonia argentina", prosegue Manes, "ha un fatturato turistico di circa 800 milioni di dollari l'anno, a fronte delle poche decine della Patagonia cilena, abbiamo forse detto tutto.
Anzi, no: dobbiamo ancora dire che la Patagonia cilena è persino più bella di quella argentina".


L’energia prodotta dagli impianti idroelettrici, per un totale di 2.750 megawatt, dovrebbe poi essere trasportata a ben 2.300 chilometri di distanza, verso Santiago del Cile e il suo distretto industriale, tramite una linea di trasmissione composta da 6mila torri alte 70 metri che attraverserebbe nove regioni, sei parchi nazionali e 67 comuni e che nei prossimi mesi dovrà passare il vaglio delle competenti autorità ambientali.
Un viaggio lungo un intero Paese per garantire energia alle ricchissime miniere del nord del Cile, dalle cui viscere si estraggono rame, oro e litio e che sembrano essere tra le più importanti al mondo: "Cile necessita energia".


"Quella idroelettrica della Patagonia e nessun'altra: non quella eolica in una regione del mondo dove il vento è una componente essenziale della vita quotidiana, non quella solare dei campi fotovoltaici che potrebbero essere realizzati proprio nelle grandi distese desertiche del nord del Paese", dice Juan Pablo Orrego, coordinatore della Campagna.


In un recente sondaggio d’opinione, il 61% degli intervistati si è espresso contro il progetto, nonostante il considerevole battage pubblicitario messo in piedi negli ultimi mesi dal consorzio HidroAysen.
L’opposizione delle comunità locali è destinata a crescere soprattutto quando si esaminerà la pratica della linea di trasmissione, che come visto dovrebbe attraversare metà Paese.


Adesso la speranza poggia proprio su questo ulteriore elemento della disputa: il parere della Commissione Ambientale Nazionale che dovrà decidere sulla linea elettrica, che attraversando nove regioni esula appunto dalle competenze di quella che ha appena deciso.


“Adesso vedremo come agirà l’Hidroaysen, dal momento che iniziare a costruire le dighe senza l’approvazione della seconda parte del progetto, quella sulla linea di trasmissione, potrebbe essere molto rischioso” ha dichiarato Giulia Franchi della CRBM, anche se il vicepresidente di HydroAysen, Daniel Fernandéz ha già chiarito che l'intero progetto è vincolato all'approvazione della linea di trasmissione.
“Ci auguriamo in ogni caso che l’Enel riconsideri la sua partecipazione all’opera, anche come hanno chiesto gli attivisti cileni intervenuti all’ultima assemblea degli azionisti dell'azienda elettrica, che si è tenuta Roma lo scorso 29 aprile”, ha concluso Franchi. Ma dall'Enel la risposta è senza appello: "Non cambieremo idea", dice l'amministratore delegato Fulvio Conti, " l'impatto previsto è minimo".


da Rai News 24





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