Instabilità & petrolio: ora fa paura anche la Nigeria

La crescente instabilità politica del Paese rischia di produrre un nuovo rialzo dei prezzi del greggio. Un problema serio per gli importatori. Ma anche per l’economia nigeriana che sul petrolio fonda tutte le sue speranze di crescita.

 L’attuale momento di instabilità politica sperimentato dalla Nigeria a fronte dei nuovi rinvii elettorali rischia di avere un impatto particolarmente significativo su un mercato petrolifero già condizionato dalle vicende libiche. E’ l’allarme lanciato dal Wall Street Journal. La guerra civile che oppone il regime di Tripoli agli insorti, spiega il quotidiano Usa, ha già spinto il prezzo unitario del greggio oltre la soglia critica dei 100 dollari. L’ipotesi di una contrazione della produzione nigeriana, che con i suoi 2,2 milioni di barili rappresenta la quarta fonte di approvvigionamento per gli Stati Uniti (dopo Canada, Arabia Saudita e Messico), non ha ancora avuto risvolti significativi. Ma alla luce delle esperienze passate, uno scenario di crisi concreta nel Paese africano potrebbe rappresentare presto un nuovo grande problema. Oggi, intento, il prezzo del Brent ha sfondato quota 120 dollari, il livello massimo dall’agosto del 2008.

Calendario alla mano, le elezioni parlamentari nigeriane avrebbero dovuto svolgersi lo scorso 2 aprile, esattamente una settimana prima del voto presidenziale che vede il capo di Stato uscente Goodluck Jonathan nettamente favorito. Tuttavia, una serie di problemi logistici e organizzativi hanno indotto le autorità a posticipare l’appuntamento con le urne. Secondo quanto riferito dal direttore della commissione elettorale Attahiru Jega, in assenza di nuovi rinvii, gli elettori nigeriani si esprimeranno per le prossime legislative sabato 9 aprile. Il 16 toccherà alle presidenziali, il 26, infine, si voterà per le assemblee dei 36 stati che compongono la federazione.

Fin qui tutto bene, o quasi, se non fosse che il clima appare tutt’altro che disteso. Nel corso dell’ultimo mese, ricorda il WSJ, le tensioni politiche sono sfociate nella violenza. Le agenzie di stampa riferiscono di almeno 20 vittime e il principale gruppo ribelle del Paese, il Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend), non ha tardato a farsi sentire. Lo scorso 16 marzo, un ordigno è esploso presso l’impianto petrolifero Agip (Gruppo Eni) di Clough Creek, nello Stato di Bayelsa. Il trend, insomma, ricorda a un po’ troppi analisti i convulsi giorni delle elezioni 2007 quando l’escalation degli attacchi alle installazioni estrattive del Paese ridusse quasi della metà la produzione petrolifera nazionale. Se un simile evento dovesse ripetersi, ha dichiarato al WSJ Andy Lipow, presidente dell’omonima società di consulenza, il prezzo del barile potrebbe aumentare di 8 dollari. Alimentando ancora di più la tendenza generale al rialzo.

L’eventuale contrazione della produzione petrolifera nazionale avrebbe poi conseguenze gravi sulla stessa economia del Paese che dall’oro nero dipende più di ogni altra cosa. Tra il 1970 e il 2007, le esportazioni di petrolio hanno fruttato alla Nigeria circa 1.200 miliardi di dollari, praticamente il 95% delle entrate statali. Il crollo del prezzo del greggio, sperimentato nell’autunno 2008, aveva contribuito ad aggravare la crisi finanziaria del Paese le cui banche, sommerse da una montagna di titoli tossici per un controvalore di almeno 10 miliardi di dollari, si trovavano a fronteggiare una spaventosa crisi di liquidità. Proprio sulla risalita del prezzo del barile (+17% nel primo trimestre 2011) la Nigeria fonda da tempo le speranze di crescita. Ma un aumento del valore di mercato prodotto da una clamorosa contrazione della produzione, ovviamente, non porterebbe alcun beneficio.

Le speranze di pacificazione e stabilità, che interessano da vicino anche le compagnie straniere, sono ora legate al probabile successo del presidente Jonathan, originario della zona del Delta (è nato 53 anni fa a Ogbia, proprio nello Stato di Bayelsa), e giudicato da molti come l’uomo più adatto nel ruolo di mediatore con i ribelli del Mend. Il 13 gennaio di quest’anno, Goodluck ha stravinto con il 77% dei consensi le primarie del People’s Democratic Party (Pdp), il movimento politico che raccoglie circa i due terzi dei voti del Paese. Un successo, per altro accompagnato dalle immancabili accuse di brogli, che dovrebbe tradursi in una scontata vittoria elettorale. Sempre, ovviamente, che si riesca anche a votare.

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