L'Europa che non c'è...

Sono tempi duri per l’Europa, schiacciata dai fallimenti economici e messa in crisi da masse sempre più disperate. Mentre Atene capitale della cultura classica, delle radici più profonde del pensiero occidentale, brucia per la rabbia e la frustrazione di un’intera generazione privata di un qualsiasi accettabile futuro, Dublino inizia a scendere in piazza gridando al golpe tecnocratico di banchieri e faccendieri. Inutile ripercorrere tutte le tappe che hanno oggi portato gli Stati sovrani d’Europa sotto lo schiaffo dei mercati.
Per riassumere basterà ricordare che quanto accade oggi è il frutto della socializzazione delle perdite, dei danni, delle spregiudicate alchimie finanziarie di avide società per azioni. Persone giuridiche, astrazioni in ultima istanza, che coprono con i loro marchi interessi di soggetti privati, persone fisiche, reali, esseri umani in carne ed ossa mossi unicamente dal profitto, dalla volontà di accumulare ricchezza e dunque potere. Se da una parte, però, in tempi di vacche grasse i guadagni vengono privatizzati, dall’altra, quando la ruota gira le perdite vengono sopportate dalle collettività.
La prima cosa su cui interrogarsi è se davvero fosse necessario colpire stipendi e pensioni - come i governi e i media hanno sostenuto e continueranno a sostenere - e ricorrere al meccanismo di salvataggio della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale e dell'Unione Europea con l'asfissia economica, politica e sociale che da esso deriva. Nel 1936, la Grecia rifiutò, pur riconoscendo l'esistenza dell'obbligazione, il pagamento del debito contratto con la banca belga Société Générale de Belgique. Il governo belga, allora, intentò causa innanzi alla Corte Internazionale della Società delle Nazioni contro la Grecia, accusando quest'ultima del mancato rispetto di un patto internazionale. Il Paese ellenico rispose che l'insolvenza era giustificata dal pericolo che il pagamento avrebbe significato per il popolo e lo Stato.
Nel promemoria, il Governo greco scrisse: ''Il governo di Grecia, preoccupato circa gli interessi vitali del popolo ellenico, dell'amministrazione, dell'economia, della salute pubblica e della sicurezza interna ed esterna del paese, non aveva altra scelta'' che quella della ristrutturazione del debito contratto con la banca belga (Yearbook of the International Law Commission, 1980, v. II, parte I, p.25-26). Nel 1938, il Tribunale riconobbe le ragioni della Grecia, creando un precedente giuridico su cui, tra l'altro, si basò il governo argentino nel 2003.
Tutto questo successe nel 1936. È dunque inquietante che il Governo greco del 2010, dimentico della propria storia giuridica, sia riuscito a convincere la maggioranza dell'elettorato, circa l'ineluttabilità del ricorso al meccanismo di salvataggio. C’era un’alternativa, ma si è scelto di non prenderla in considerazione, di non discuterne neanche imponendo un processo di risanamento a tappe forzate. Una scelta che gronda lacrime e sangue.
Anche l’Irlanda ha subito la stessa indecente violenza. Scrive il Professore Robert E. Prasch, economista del Middlebury College, USA: “L’Irlanda poteva semplicemente dichiarare il fallimento, rinegoziare il suo debito e far capire ai suoi creditori che l’alternativa era prendere o lasciare un’offerta unilaterale del governo di Dublino. Ma il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea hanno intuito questa via d’uscita e hanno inserito nei termini per il “salvataggio” dell’Irlanda la pretesa che il suo governo si giocasse come garanzia per gli investitori i soldi del Fondo di Riserva delle Pensioni Nazionali Irlandesi … detto in parole povere, la sopravvivenza dei pensionati d’Irlanda sarà ostaggio di questo accordo.”
“Non deve sorprendere - continua il professor Prasch - venire a sapere che fra le condizioni del medesimo accordo di “salvataggio” dell’Irlanda ci siano dettagli inspiegabili come l’obbligo per le famiglie di dotare ogni casa di un contatore dell’acqua a unità separate, precondizione essenziale per la privatizzazione del servizio. O la riduzione dei già miseri stipendi minimi. Cos’hanno a che fare i contatori dell’acqua e gli stipendi minimi con le frodi bancarie, le deregulations, e la condotta folle del governo che hanno creato e nutrito questa crisi? Li hanno incastrati: il FMI, la UE e il governo di Dublino sono d’accordo che la via migliore è di smollare i rischi e i costi associati col salvataggio delle banche a coloro che non c’entrano nulla con quella frode e che ne hanno beneficiato zero.”
E ancora: “Gli appiopperanno più tasse e più alte, abbasseranno gli stipendi dei dipendenti pubblici, alzeranno le rette per gli studenti, crollerà l’assistenza ai poveri e ai disoccupati, saranno tagliati i benefici alle famiglie con bimbi piccoli, mentre saranno salvati i gruppi di ricchi, le corporations, quasi tutti i dirigenti di banca e gli speculatori stranieri.” Infine - prosegue Prash - senza dubbio i banchieri e i burocrati del Fondo Monetario Internazionale e della UE hanno colto nella crisi irlandese un’opportunità eccezionale: la possibilità di imporre agli irlandesi una politica economica decisa da un potere non eletto e fuori controllo, esattamente come sotto l’egemonia britannica dell’800”. Non si poteva scrivere meglio.
Lungi ora dal voler giocare a fare le cassandre, quello che qui interessa è iniziare a ragionare su come salvare il nostro continente da un simile futuro. Come trasformare l’attuale Unione Europea, già descritta come un gigante economico, un nano politico ed un verme militare, in qualcosa di nuovo e di migliore, magari prendendo le mosse da quell'idea di un'Europa federale antica e radicata nella cultura continentale. Si potrebbe citare Carlo Cattaneo e una sua frase che anticipò di un secolo la nostra cultura dell'Europa unita: "Avremo pace quando avremo gli Stati uniti d'Europa". In realtà, anche se l'unità è ancora largamente imperfetta, quest'obiettivo è stato, almeno in parte, raggiunto nei paesi che sono andati formando l'Unione Europea e hanno goduto, per la prima volta nella storia, di cinquant'anni di pace.
La tradizione europeista e federale trova le sue radici in tempi antichissimi, in un secolare itinerario di trattative snervanti fra i governi, fatto di frustrazioni e sconfitte, con gli infiniti compromessi che ha dovuto accettare chi ha spesso dedicato la vita alla costruzione di un'Europa veramente unita. Cos’è mancato? Cosa manca ancora oggi? Probabilmente i popoli europei, di cui giustamente tanti parlano, ma che anche oggi appaiono come i grandi assenti, per mancanza di una vera consapevolezza circa il loro comune orizzonte politico, economico e sociale.
È cominciato nel secolo passato, ed è continuato nel presente, un processo di grande trasformazione della civiltà europea. Ma un'altra Europa, con questa nuova identità, non sembra ancora esistere, incapace - com’è oggi - di costruire un futuro grande Stato federale, in grado di far fronte alle emergenti potenze demografiche ed economiche, come l'India e la Cina, che si stanno sviluppando ciascuna con oltre 1 miliardo di abitanti, o di far fronte alle potenze storiche come gli Stati Uniti d'America e la Federazione Russia.
È questa un'esigenza drammatica ed urgente di cui i governi dei 27 stati della cosiddetta Unione europea non si occupano. È dunque arrivato il momento di far rivivere un movimento federalista europeo, perché proprio oggi, proprio ora è il momento di mobilitare i popoli per salvare l'Europa e con essa la propria storia, la propria cultura, i propri usi e costumi.
Il voto negativo dei popoli francese (maggio 2005) e olandese (giugno 2005), espresso nei referendum consultivi sul progetto di una Costituzione per l'Europea, e del popolo irlandese al trattato di Lisbona (giugno 2008), seppur modificato nel secondo referendum (ottobre 2009), nasce da un problema di contenuti e finalità del progetto europeo, oltre che di metodo. È infatti necessario ridefinire la ragion d'essere dell'Unione europea, il fine ultimo di cui l’integrazione europea, l’Unione Economica e Monetaria, la difesa dei valori di libertà e democrazia non sono altro che i mezzi.
Per tornare a vedere il sole sui cieli d’Europa, il manifesto Per un'Europa libera e unita, conosciuto anche come "manifesto di Ventotene", di oltre cinquant'anni fa, può essere il primo passo per l’ispirazione, con la sua forte denuncia della "crisi dello Stato nazionale", della "attualità della lotta per la federazione europea", della "priorità della federazione europea" rispetto a qualsiasi altro obiettivo politico, dello "spostamento sul piano europeo della linea di divisione tra forze di progresso e forze della conservazione", della "creazione di un nuovo soggetto politico per dirigere la lotta per la federazione europea" unitamente alla rivendicazione di "un'assemblea costituente europea" come strumento per costruire un potere democratico europeo.
Non c’è più tempo e la drammaticità della crisi economica accelererà la presa di coscienza di quanti oggi per le strade di tutto il continente sfogano la loro rabbia contro i fantocci del potere. Quella politica incapace di vedere, capire e dunque risolvere i problemi. Toccherà evitare le trappole, saper identificare, ad esempio, quella “strategia della tensione” che dal 1969 al 1984 distrusse in Italia tutto quanto di buono l'autoconsapevolezza e l'autodeterminazione delle masse aveva, a fatica, sapientemente costruito.
Non dobbiamo né possiamo commettere nuovamente gli stessi errori del passato. Urge dunque un nuovo metodo: non chiudere le proprie analisi in alcuno schema, confrontarsi creativamente con la realtà nella sua evoluzione, ispirarsi tenacemente a idealità non passeggere come quelle dell'unità e del comune senso dell'Europa, per risollevarsi da ogni inevitabile sconfitta. Urge un’indomabile volontà d'azione che sia d’ispirazione per tutti coloro che operano per l'avanzamento del processo di integrazione europea, con gli occhi fissi al futuro.

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