Lampedusa, il porto della disperazione


Alle sei della sera la vergogna dell’Italia è una fila di giovani uomini inginocchiati nella polvere con un foglio di carta in mano. Non sono più esseri umani in fuga da una guerra civile e alla ricerca di pane e pace. Sono numeri. Chi è arrivato prima vince la lotteria della vita. Chi ha il numero più basso ringrazia il suo dio: finalmente può scappare dall’isola, raggiungere un luogo della terra ferma, forse conquistare un altro pezzo di carta, guadagnare lo status di rifugiato e fuggire in Europa, la terra che non lo vuole. Samir è disperato, le lacrime bagnano la sua faccia di bambino. Lui il foglietto l’ha perso. Urla in un misto di francese e arabo che è regolare, che il numero ce l’aveva. I carabinieri non lo capiscono. E allora si mette davanti al pullman già pieno di altri sventurati. Si sdraia a terra. Lo sollevano, lo tirano a forza oltre il cancello. La strada è libera, ora il torpedone della libertà può partire. Destinazione aeroporto. Cento disgraziati che il Mediterraneo ha spinto qui, nel punto più estremo d’Italia, partono per una destinazione che non conoscono. Forse un altro punto della Sicilia, forse un centro di accoglienza in un altro luogo d’Italia. Gli altri 2200 disperati resteranno a Lampedusa, l’isola che è ormai una zattera alla deriva nel Mediterraneo. Rinchiusi in un centro che la propaganda del governo e del suo ministro leghista aveva chiuso due anni fa, a dimostrazione che l’emergenza immigrati era finita e che i lampedusani potevano continuare a prosperare con la pesca e il turismo. Balle, politica bugiarda, buona per tg e giornali di regime. La realtà sono i materassi di spugna che vediamo buttati a terra nel cortile del centro, all’aperto, con uomini che passeranno la notte rannicchiati come feti in coperte troppo corte per vincere l’umido e il freddo. E camerate zeppe dove non si può entrare, non si può filmare. Anche l’informazione è clandestina nel Paese che non deve vedere scene come quelle che il cronista vede e fotografa. Materassi di spugna anche nei corridoi, tra bottiglie di acqua e resti di cibo. Un odore di sudore e piscio che prende allo stomaco. “Non mi lavo da quattro giorni. Non ci sono docce per tutti, non ci danno asciugamani e manca anche il sapone”, ci dice uno dei ragazzi della camerata. Il centro è stato costruito per ospitare tra 800 e 900 persone. Ce ne sono tra i 2200 e i 2500, ammassati come bestie, vittime di una emergenza fin troppo annunciata che nessuna autorità italiana ha voluto vedere.

Quattromilacinquecento persone sono sbarcate dal 10 al 13 febbraio su questo pezzo di roccia dove vivono poco più di 5mila italiani. Tutti giovani, almeno 200 minori, tutti fuggiti da quello tsunami di paura, violenza, fame, disperazione che dalle coste nordafricane sta travolgendo l’Italia. Ragazzi che incontriamo lungo le strade di Lampedusa. Molti hanno soldi e chiedono dove possono cambiare i loro dinari, carta straccia che nessuno vuole, neppure le banche del posto. “Solo dollari, only dollars”, urlano gli impiegati. Un tizio col codino e l’accento siculo, invece, si è organizzato il suo sportello privato. Lui la carta straccia la prende, ma a modo suo. “Dieci dinari, tre euro. Li vuoi, se no cazzi tuoi”. Avviciniamo Chawaki che ci racconta di essere partito dal porto di Zarzis. Parla un misto di francese e dialetto siculo. “Voglio andare in Francia, lì ci sono i miei parenti. Sono scappato da Tunisi perché si spara, ci sono i cecchini. Perché ora al potere ci sono gli amici di Iddu, ‘o presidente, e comandano sempre loro. Perché Iddu non vuole nesciri”.“Italia libertà”. Wahid, 26 anni, ci saluta con le dita a V di vittoria. “Vengo da Sfax, ho visto ammazzare la gente per strada dalle guardie del presidente. Ho pagato 4milioni di dinari (circa 2mila euro, ndr) per il viaggio nel peschereccio. Non voglio stare qui, voglio andare in Germania”. Vagano per l’isola i ragazzi venuti da Monastir, da Sfax, da quella nuova Tortuga che è il porto di Zarzis. “Questi non sono clandestini, sono profughi, aiutiamoli”, ci dice il venditore di bibite che distribuisce acqua gratis a tutti. Antonio Caprarotta, che vende frutta e verdura, non accetta dinari, non vuole i soldi dei disperati. I tunisini entrano, chiedono frutta, lui allunga mele, pere mandarini e si accontenta di un grazie. “Questi sono maltrattati pure da dio”, è la sua filosofia. Grande cuore a Lampedusa, l’isola che la sciatteria del governo ha trasformato in un enorme campo profughi. “La tensione è alle stelle – racconta Giusi Nicolini, di Legambiente – non so fino a quando potremo sopportare questa situazione. Il governo ha sbagliato tutto e andrebbe denunciato per omissione di soccorso. Hanno aperto il centro tardi e male, nei primi giorni qui c’erano più di 4mila persone infreddolite, malate, affamate, e solo due medici”. Emergenza umanitaria, l’hanno definita. “Io parlerei di un numero elevato di persone sbarcate e di una situazione difficile da gestire”, dice invece Laura Boldrini dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. “Voglio ricordare che nel 1999 sulle coste pugliesi arrivarono 30mile persone. Ora, però, bisogna decongestionare l’isola, perché c’è il rischio concreto di nuovi sbarchi”. Altre decine di migliaia di persone che premono nei porti tunisini e libici. Un’onda enorme di umanità che ha già perso quel poco che aveva pronta a sbarcare qui, a Lampedusa, povero scoglio alla deriva nel Mediterraneo. Troppo vicina all’Africa. Troppo lontana da Roma.


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