Donne dell’Est abusate nei campi dai datori di lavoro per 10 euro

Il libro-inchiesta “Voi li chiamate clandestini” di Laura Galesi e Antonello Mangano denuncia i “festini agricoli”, serate in cui le lavoratrici, nelle campagne di Vittoria (Ragusa), arrotondano la paga con prestazioni sessuali. Aumentano gli aborti.

Roma – Donne migranti costrette a prostituirsi dai datori di lavoro nelle campagne del ragusano per 10 euro a prestazione sessuale, dopo aver passato la giornata nei campi per la solita paga di 20 euro. Raccoglitrici di pomodorini soprattutto rumene che in seguito agli abusi subiti restano incinta e abortiscono. È uno spaccato feroce e un volto sconosciuto dello sfruttamento dei migranti nella produzione agricola del made in Italy quello raccontato da Laura Galesi e Antonello Mangano nel libro “Voi li chiamate clandestini” , edito da Manifestolibri. Un’inchiesta tra caporalato e sfruttamento svolta in tutto il meridione. Il saggio denuncia la consuetudine di ‘festini agricoli’ nelle campagne di Vittoria (RG) e cita la testimonianza di don Beniamino Sacco, che gestisce un centro di accoglienza per 70 migranti. “Sono serate – spiega il sacerdote agli autori -  in cui il datore di lavoro , insieme ai suoi amici aiuta ad arrotondare il cachet delle lavoratrici che, per otto ore di lavoro, guadagnano fino a venti euro. Con la serata arrotondano a 30”. Don Sacco li definisce “veri e propri fenomeni di abuso” difficili da quantificare e sostiene che “quello visibile è circa il 15%”. A Vittoria, si legge nel saggio di Galesi e Mangano entrambi siciliani, fino a giugno 2010 sono state registrate 15 interruzioni volontarie di gravidanza. Una crescita esponenziale degli aborti denunciata come preoccupante dai medici del presidio ospedaliero Guizzardi perché a fare richiesta di aborto è stato un unico gruppo, quello delle lavoratrici dell’Est impegnate nei campi. A Vittoria, che conta oltre 60 mila abitanti, i migranti sono 12 mila di cui 8 mila impegnati come lavoratori agricoli. Di questi, 2.500 sono le donne rumene.

Ma non è un caso isolato. Nell’entroterra siciliano, in provincia di Caltanissetta, “le aziende si contendono le più carine”. A dirlo è Pino Cultraro, segretario Flai Cgil locale. Le aziende comprano ‘pacchetti’ di 10 lavoratori stranieri, comprese le donne, e poi per evitare i controlli se li vendono ogni tre giorni, facendoli passare da un imprenditore all’altro. In questo caso non c’è la mediazione del caporale.  Da Pachino a Rosolini si registra anche il caporalato al femminile. Sono donne caporali italiane. Si alzano alle quattro del mattino e affittano pulmini con cui portano 20 rumene per volta a raccogliere i pomodorini di Pachino o le zucchine nei tunnel, piccole serre alte 80 centimetri. Le caporali italiane, anche loro lavoratrici nella stessa azienda delle straniere, affittano  case in cui tengono le lavoratrici. Un comportamento che è spesso l’anticamera della prostituzione. L’attività di controllo delle caporali è retribuita dai datori di lavoro circa cinque-seimila euro in più l’anno.

A maggio 2009 a Rosarno, un’indagine dei carabinieri e della Dda di Reggio Calabria ha coinvolto tre noti imprenditori locali e due caporali bulgari. Oltre a non pagare i migranti marocchini che lavoravano nei campi minacciandoli di denunciarli alla questura perché non in regola con il permesso di soggiorno, erano stati sequestrati i documenti a una ragazza bulgara costringendola a lavorare duramente e a prostituirsi. Tra le accuse per gli imprenditori italiani e per i caporali c’erano: estorsione, maltrattamenti, associazione per delinquere, violenze, induzione alla prostituzione e riduzione in schiavitù.  (raffaella cosentino)

Fonte: Redattore Sociale

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