Le famiglie sono in difficoltà, ma i marchi di lusso volano.


Torna a crescere il mercato delle grandi griffe, mentre per l'Eurispes una famiglia su tre fatica ad arrivare a fine mese. Gli utili di Prada, Tod's, Bulgari salgono soprattutto grazie alle vendite in Asia.

È di nuovo festa, festa grande, tra i grandi marchi del lusso. Gioielli, orologi, pelletteria, auto sportive: le aziende annunciano ricavi in crescita a doppia cifra e profitti in forte ripresa. E’ il caso di 
Bulgari e Tod’s, per citare le ultime due società del settore che hanno comunicato i dati del bilancio 2010. Numeri positivi, accompagnati, ormai sono mesi, da rialzi continui in Borsa. Insomma, il lusso va forte. Con buona pace della crisi. E di un contesto generale che vede l’economia ferma, o quasi, i consumi in calo e sempre più famiglie che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese: addirittura una su tre, racconta il rapporto dell’istituto di ricerca Eurispes presentato venerdì.

Insomma, la recessione non c’è più, perchè, dicono le statistiche, in buona parte dell’Europa il Pil ha ripreso a crescere, seppure di pochissimo. Tutto questo, però, non basta a rilanciare i consumi. C’è poco da fare: le famiglie hanno pochi soldi da spendere. E allora l’industria frena. I beni di lusso, invece, vanno controcorrente. La crescita c’è, eccome. Possibile? Sì, possibile, per almeno due buone ragioni, spiegano gli esperti.

La prima è che nei Paesi occidentali la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre di più. I ceti benestanti hanno consolidato la loro posizione nei confronti delle famiglie meno abbienti. Il divario si è allargato per effetto della crisi e i consumatori con il reddito più elevato sono riusciti a salvaguardare, quando non ad aumentare la loro capacità di spesa. Questo però non basta, da solo, a spiegare la gran ripresa del lusso. Le aziende, in realtà, hanno ripreso a correre al traino di un motore globale. Un motore che si chiama Cina. Da quelle parti la classe agiata negli ultimi anni ha visto moltiplicarsi il proprio potere d’acquisto. E i grandi marchi occidentali sono visti, ancora più che da noi, come status symbol da inseguire costi quel che costi. Non è un caso allora se le ultime ricerche segnalano che la crescita del settore luxury in Cina nel 2010 ha sfiorato il 20 per cento contro il 4 per cento stimato in Europa e il 7 per cento delle Americhe.

La conferma a queste previsioni arriva dai dati di bilancio più recenti delle multinazionali. Sono le vendite nell’area denominata Asia-Pacifico (Giappone escluso) a far segnare gli incrementi di gran lunga maggiori. Tutto questo in un contesto comunque positivo, dopo i minimi toccati tra i 2008 e il 2009 nella fase più acuta della crisi. Bulgari, per esempio nel 2007 realizzava in Asia (esclusi Giappone e Medio Oriente) circa il 20 per cento dei propri ricavi. Nel 2010 il fatturato del gruppo è stato ancora di poco inferiore a quello di tre anni prima, ma la quota di Cina e dintorni ha superato il 27 per cento. Per Prada nei primi 9 mesi del 2010 il giro d’affari globale è cresciuto del 31 per cento, quello asiatico del 51 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Insomma, l’Oriente, a parte il Giappone, cresce quasi a doppia velocità.

La caccia ai marchi non risparmia neppure le auto. Bmw e Mercedes l’anno scorso hanno fatto registrare risultati da record. Il boom però è targato Cina. Mercedes, in particolare, l’anno ha più che raddoppiato le proprie vendite nel Paese della Grande Muraglia: da 70 mila a 148 mila vetture.

La Ferrari, marchio di lusso per eccellenza delle quattro ruote, l’anno scorso ha aumentato i propri profitti operativi del 27 per cento a 303 milioni di euro, facendo segnare il record di vendite. E in Cina l’azienda di Maranello ha raddoppiato: 300 esemplari piazzati nel 2010 contro i 150 del 2009.

Non solo gioielli, abiti e orologi, quindi. A Pechino e Shanghai la corsa ai simboli della ricchezza occidentale moltiplica le vendite anche delle case automobilistiche. E’ l’ennesimo segnale, spiegano gli economisti, che la ricchezza, in una sorta di riequilibrio a livello globale, si sta sempre più spostando dagli Stati Uniti e dalla vecchia Europa in direzione del paese che fu di Mao. C’è poco da sorprendersi, allora, se un’azienda come Prada sceglie di quotarsi in Borsa a Hong Kong anzichè a Milano.

Lo sbarco in Borsa può diventare una vetrina per aumentare le vendite su un mercato in forte crescita. E poi, come dimostra il passato recente, il listino cinese ha garantito valutazioni mediamente più elevate rispetto all’Europa e a Wall Street. Come dire, più soldi in cassa per l’azienda che si quota. Quello che ci vuole per Prada, che deve fare il pieno di risorse anche per rimborsare il forte indebitamento bancario.

Da Il Fatto Quotidiano del 29 gennaio 2011

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