Vivere e lavorare in Vietnam: a 30 anni sei da buttare


Per produrre un capo firmato - ad esempio una giacca a vento sportiva dal valore commerciale di 250 dollari - ci vuole il duro lavoro di alcune centinaia di operaie, come quelle impiegate nei capannoni non lontano da Hanoi, in Vietnam. Di quei 250 dollari, alla vendita, alle lavoratrici dello stabilimento ne vanno complessivamente 6. Fate un po' voi il calcolo.

Si lavora a cottimo su 3 turni, ciascuno dei quali formalmente di 8 ore, ma di fatto di 12 ore, tutti i giorni, spesso senza riposo settimanale, se l'ordinativo è particolarmente stringente rispetto ai tempi di consegna. Gli obiettivi di cottimo sono già in partenza proibitivi. E lo sanno tutti: manager, sindacato e lavoratori. Gli straordinari sono indispensabili per passare da una media di 50 ai 100 dollari. Si lavora per vivere (12 ore), si vive per lavorare (le rimanenti 12 ore).

Le operaie sono giovanissime, in media fra i 20 e i 25 anni. A 35 anni sono già troppo vecchie e usurate per questo lavoro. La vista si è gravemente deteriorata e non tengono più il ritmo con le altre operaie, che a quel punto ne richiedono la rimozione, essendo divenute un fattore di rallentamento che penalizza la produttività - e dunque il reddito - di tutta la squadra.

Nelle fabbriche di questo gigantesco opificio che è diventato l'estremo oriente, un giorno di assenza - peggio ancora: 2 - può comportare la decurtazione dell'intero integrativo aziendale, pari al 50% del reddito mensile totale. Una o due mensilità vengono trattenute anticipatamente dal datore di lavoro - un contoterzista spesso straniero (Taiwan, Corea, Singapore) su committenza straniera (americana, europea, giapponese, coreana) - qualora la lavoratrice dovesse licenziarsi senza il dovuto preavviso. Il salario serve anche a sostenere le famiglie di origine, nei villaggi. La metà degli operai deve ricorrere al prestito personale per sbarcare il lunario ogni mese. E non deve essere un mercato particolarmente trasparente e rassicurante.

La stragrande maggioranza ha un impiego a breve termine. Ma neppure gli "stabili" lo sono poi troppo; il licenziamento non comporta complicazioni particolari. Si alloggia in umilissimi dormitori, di cui potete vedere un esterno nella foto. In 8-12 per camerata. Se si ottiene qualche piccolo aumento salariale, immediatamente il proprietario del dormitorio chiede un aumento dell'affitto per il posto letto. Non esiste alcun regime pensionistico e i vecchi sono di fatto a carico dei figli maggiori maschi.

Il sindacato, che in una fabbrica come quella visitata e molte altre ancora, può vantare anche il 90% di iscritti, cogestisce questo regime di lavoro, limitandosi a negoziare premi nuziali e festivi, cercando di disinnescare malcontento e conflitto. Conflitto che di tanto in tanto esplode spontaneamente, con risultati solitamente buoni, malgrado la loro breve durata. A quel punto né il sindacato né le autorità fanno nulla per reprimerlo (a meno che non si provi ad organizzare un sindacato alternativo). E dire che con un giorno di sciopero, meglio se sotto consegna, si ottengono aumenti salariali davvero ragguardevoli!

Che tutto ciò si fregi della retorica e della iconografia comunista - ovunque sui muri di queste lande - è cosa che non può non suscitare sconcerto. Qui neanche le medicine, l'assistenza medica e l'istruzione primaria sono gratuite; anzi! Povero Marx! mi dico e mi ripeto. Teorico del plusvalore e della dialettica, viene idolatrato oggi nei paesi dove il saggio di sfruttamento - secondo le sue celebri formule economiche (salario-prezzo-profitto) - è il più alto del mondo e in cui, attingendo al confucianesimo e ai "valori asiatici", si sopprime la lotta di classe e il conflitto in nome dei valori superiori dell'armonia e dell' ordine gerarchico più inflessibile.


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